SPIGOLANDO......

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grazia
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Re: SPIGOLANDO......

Messaggio da leggere da grazia »

Questa è la storia di una gabbiana che volava felice nell'aria insieme al suo stormo.

Ad un tratto, si tuffa nel mare per mangiare qualche piccola aringa, ma ... il mare è una distesa di petrolio e la povera gabbiana non riesce più a volare libera nel cielo perché le sue ali si sono inzuppate di quel malefico oro nero e restano immobili.
Raccolte le sue ultime forze, riesce a raggiungere la città ma precipita sul balcone di una casa.
Qui abita Zorba, un gatto grosso dal mantello lucente e nero.

La gabbiana è tutta sporca e puzzolente e Zorba le dice: ti darò un po' del mio cibo e ti farò guarire.
La povera gabbiana sta molto male ma prima di morire riesce ad affidare il suo primo e ultimo uovo allo stupito Zorba, dopo avergli chiesto di mantenere tre promesse:
1) covare l'uovo,
2) avere cura del pulcino che sarebbe nato,
3) insegnargli a volare.
Zorba promette di prendersi cura del piccolo che sta per nascere.
E intanto la gabbiana, dopo aver deposto l'uovo, se ne andò per sempre.
Zorba, il gatto, lo vorrebbe mangiare ma per rispettare le promesse, con delicatezza si va a posare sull'uovo e comincia a covarlo e riscaldarlo.
All'improvviso dall'uovo esce una gabbianella che venne chiamata Fortunata.
Zorba, con l'aiuto dei suoi amici gatti, alleva con tanto amore la piccola gabbianella e la protegge dai pericoli.
Il problema nasce quando Zorba deve insegnare a volare a Fortunata.
Zorba la portava sul campanile e dopo tanti tentativi un bel giorno la gabbianella aprì le ali e volò verso il mare e da lontano salutò Zorba !!!
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grazia
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Re: SPIGOLANDO......

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ER SENTIMENTO

Trilussa

Una vorta un Piccione disse ar fijo:
— Prima che lassi er nido e voli via,
bisogna che te dia quarche consijo.
Sta’ attent’all’omo! Te farà la caccia
perché è un bojaccia: ma, se tu je tocchi
la corda più sensibbile der core,
je vèngheno le lagrime nell’occhi.
Percui, quanno te pija,
dije che ciai tu’ moje che t’aspetta…
Lui nun t’ammazzerà, perché rispetta
l’affetti de famija.
Se questo nun fa effetto, je dirai
che, facenno er piccione viaggiatore,
potrai sarvà la Patria da li guai;
davanti ar patriottismo
s’intenerisce e piagne,
ripensa a le campagne,
te mette in libbertà.
Se nun j’abbasta, di’ che sei parente
de lo Spirito Santo, ch’è un piccione:
solo ar pensiero de la religgione
nun te cucinerà sicuramente…
Ma bada ch’abbia fatto colazzione!
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Re: SPIGOLANDO......

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L’UOMO E LA DONNA
Victor Hugo


L’uomo è la più elevata delle creature.
La donna è il più sublime degli ideali.
Dio fece per l’uomo un trono, per la donna un altare.
Il trono esalta, l’altare santifica.
L’uomo è il cervello. La donna il cuore.
Il cervello fabbrica luce, il cuore produce amore.
La luce feconda, l’amore resuscita.
L’uomo è forte per la ragione.
La donna è invincibile per le lacrime.
La ragione convince, le lacrime commuovono.
L’uomo è capace di tutti gli eroismi.
La donna di tutti i martìri.
L’eroismo nobilita, il martirio sublima.
L’uomo ha la supremazia.
La donna la preferenza.
La supremazia significa forza;
la preferenza rappresenta il diritto.
L’uomo è un genio. La donna un angelo.
Il genio è incommensurabile;
l’angelo indefinibile.
L’aspirazione dell’uomo è la gloria suprema.
L’aspirazione della donna è la virtù estrema.
La gloria rende tutto grande; la virtù rende tutto divino.
L’uomo è un codice. La donna un vangelo.
Il codice corregge, il vangelo perfeziona.
L’uomo pensa. La donna sogna.
Pensare è avere il cranio di una larva;
sognare è avere sulla fronte un’aureola.
L’uomo è un oceano. La donna un lago.
L’oceano ha la perla che adorna;
il lago la poesia che abbaglia.
L’uomo è l’aquila che vola.
La donna è l’usignolo che canta.
Volare è dominare lo spazio;
cantare è conquistare l’Anima.
L’uomo è un tempio. La donna il sacrario.
Dinanzi al tempio ci scopriamo;
davanti al sacrario ci inginocchiamo. Infine:
l’uomo si trova dove termina la terra,
la donna dove comincia il cielo.
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Re: SPIGOLANDO......

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L'angolino del sorriso

LA BARCA


Una coppia andò in vacanza su un lago in cui si poteva pescare.
Lui amava pescare all’alba e lei adorava la lettura.
Una mattina lui tornò dopo alcune ore di pesca e decise di sdariarsi e schiacciare un pisolino.
Benchè il lago non le fosse familiare, lei decise di uscire in barca.
Remò un po’, ancorò la barca e ricominciò a leggere il suo libro.
Dopo un po’ apparve una guardia vicino alla sua barca.
Richiamòla donna e le disse: "Buongiorno, signora… Cosa sta facendo?"
"Leggo" – rispose lei, pensando che fosse evidente.
"Si trova in un’area di divieto di pesca" "Ma non sto pescando!
Non lo vede?"
"Sì però ha con sè tutto l’occorrente. Dovrà seguirmi e la dovrò multare".
"Se lo fa, la denuncio per violenza carnale!" – disse la donna indignata.
"Ma.. ma se non l’ho neanche toccata!"
"Sì, però ha con sè tutto l’occorrente!"

Morale: Non discutere mai con donne che sanno… leggere …
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Re: SPIGOLANDO......

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Il diavolo e la castagna

Nel tempo dei tempi il buon Dio aveva deciso di donare all'uomo, per certi suoi meriti, un frutto davvero eccellente.
Pensò un attimo e la sua sapienza infinita gli suggerì di crearne uno con la polpa candida e dolce, con la camiciola
lanosa contro i rigori del gelo e con la buccia solida contro gli insetti e i roditori del bosco.
L'uomo assaggiò il nuovo frutto e lo trovò delizioso e quando la stella del vespro salì a curiosare oltre il monte,
egli piegò le ginocchia a ringraziare il Signore.
li diavolo, però, ne fu così seccato e invidioso che passò sull'istante all'azione. li mattino seguente l'uomo, tornato
ai suoi frutti, li trovò avvolti in una corazza di spine, impenetrabile.
Corse, allora, al trono di Dio e così disse:
Signore, non mi è più possibile gustare il tuo dono: è tutto una spina.
li buon Dio sorrise e lo assicùrò:
Torna tranquillo alle tue faccende, attendi con molta fede, con un po' di pazienza e vedrai...
Passarono alcuni giorni, poi, quasi d'improvviso avvenne il miracolo. Un mattino che la nebbia, sul monte, pareva d'argento, il riccio arcigno si aprì in forma di croce, liberando non una, ma tre, quattro castagne. ..
L'uomo ripetè sulla sua fronte il segno di croce apparso nel riccio, mentre il diavolo, sconfitto, dalla rabbia si
morse la coda, sprofondando sotto terra.

R. MARI
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Re: SPIGOLANDO......

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Er compagno scompagno

Un Gatto, che faceva er socialista
solo a lo scopo d'arivà in un posto,
se stava lavoranno un pollo arosto
ne la cucina d'un capitalista.

Quanno da un finestrino su per aria
s'affacciò un antro Gatto: - Amico mio,
pensa - je disse - che ce sò pur'io
ch'appartengo a la classe proletaria!

Io che conosco bene l'idee tue
sò certo che quer pollo che te magni,
se vengo giù, sarà diviso in due:
mezzo a te, mezzo a me... Semo compagni!

- No, no: - rispose er Gatto senza core
io nun divido gnente cò nessuno:
fo er socialista quanno sto a diggiuno,
ma quanno magno sò conservatore!
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Re: SPIGOLANDO......

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Misurare le parole



Giovanna Cosenza

Docente universitaria di Semiotica



Che il linguaggio contribuisca a forgiare ciò che pensiamo, sentiamo e addirittura percepiamo è qualcosa che la ricerca scientifica sa da tempo: schiere di psicologi, filosofi, sociologi e semiologi hanno ripetuto per tutto il Novecento che gli esseri umani sono fatti di parole e segni, oltre che di carne e ossa. È con le parole che costruiamo la nostra capacità di pensare, è di parole che sono fatti gran parte dei nostri pensieri, ed è dalle parole che dipende pure il mondo esterno, o almeno quella fetta che rientra nei limiti della nostra comprensione. Questa consapevolezza è ormai talmente diffusa da essere entrata nel senso comune: capita a tutti di sentir ripetere nei contesti più disparati, dai talk show ai supermercati, frasi come «Le parole sono pietre», che era il titolo di un libro di Carlo Levi, o «Le parole sono importanti», che fu urlata da Nanni Moretti nel film Palombella Rossa, per dar voce alla rabbia che il personaggio Michele Apicella provava contro i luoghi comuni sciorinati dalla giornalista che lo stava intervistando.



Le parole siamo noi insomma, e lo sappiamo. Inoltre sono pietre, nel senso che possono fare male, e molto. Se non si scelgono con ponderazione e non si usano con tatto. Anche di questa ponderazione ci riempiamo la bocca da anni, con il linguaggio politically correct: non diciamo più «handicappati» ma «disabili», non più «spazzini» ma «operatori ecologici», non più «negri» ma «neri» o «persone di colore». Per non parlare delle acrobazie linguistico-simboliche con cui cerchiamo di consolare le donne della loro discriminazione sociale ed economica, particolarmente più grave in Italia che in altri paesi sviluppati: «care colleghe e cari colleghi», «care/i colleghe/i», «car* collegh*» e via dicendo. Ma se da un lato ci esercitiamo in circonlocuzioni «politicamente corrette», dall’altro siamo pronti, oggi più di ieri, a usare la lingua in modo sbracato: turpiloquio, espressioni colorite, colloquiali e gergali hanno ormai invaso anche gli ambienti più colti ed elitari – dall’università all’azienda, dalla politica alle istituzioni – nell’idea che «parlare come si mangia» implichi maggiore autenticità ed efficacia del parlar forbito. Un’idea confermata tutti i giorni dai media, specie dalla televisione, dove l’aggressività linguistica è diventata per molti (giornalisti, star, ospiti) un vezzo, un fatto di stile. E in quanto tale fa tendenza e si riproduce ovunque, dai salotti chic ai flaming su internet.

Non è facile trovare un equilibrio fra questi due poli: da una parte, infatti, le formule politicamente corrette non bastano a costruire il rispetto che pretenderebbero di esprimere, ma restano spesso una semplice facciata, dietro alla quale si possono camuffare le peggiori tendenze razziste, omofobe e sessiste; d’altra parte è vero anche che la sciatteria linguistica può implicare sciatteria esistenziale e relazionale: «Chi parla male pensa male e vive male», diceva ancora Nanni Moretti/Michele Apicella. Ma se gli eccessi eufemistici possono cadere nell’ipocrisia, pure la posizione di Moretti corre i suoi rischi, che sono quelli dello snobismo: il mondo è pieno di persone che non hanno potuto dotarsi degli strumenti culturali necessari a raffinare il modo in cui parlano, ma sono ugualmente capaci di pensare e vivere benissimo, vale a dire con autenticità e rispetto per gli altri. Molto più di quanto non facciano certi sapientoni, la cui arroganza – verbale e non – vediamo all’opera tutti i giorni.

E allora, come se ne esce? Come si trova la misura giusta? Purtroppo non c’è una soluzione generale, perché l’attenzione, il senso di opportunità, il rispetto sono sempre relativi al contesto e al momento in cui si esercitano, ma soprattutto alla persona (o persone) a cui sono indirizzati. E oltre che con le parole possono essere trasmessi con l’espressione del volto, il tono della voce e gli atteggiamenti del corpo, con i quali si può confermare ciò che abbiamo detto, ma anche sconfessarlo. Perciò bisogna cercare la misura caso per caso, sempre ricordando che siamo ciò che diciamo e diciamo quel che siamo, ma lo diciamo con un mare di segni, sintomi e indizi ben più vasto delle parole, e lo diciamo anche con l’insieme dei nostri comportamenti e il tessuto delle nostre relazioni. Lo diciamo con tutta la nostra vita.

Questo articolo è appena stato pubblicato su Multiverso
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Re: SPIGOLANDO......

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Elogio dell'Autunno


L'autunno è per definizione una stagione triste. Gli aggettivi e le espressioni usate per descriverlo in questo stato d'animo, caratterizzato dalla tristezza, sono infiniti: malinconico autunno, l'autunno della ragione, tristezze d'autunno, foglie morte d'autunno, tristi riti autunnali, l'autunno del nostro scontento, l'autunno del cuore, l'autunno della democrazia, l'autunno del pensiero, l'autunno della memoria, l'autunno dei morti e via tristeggiando.

Potremmo opporlo all’ “ottimismo della primavera” per il necessario equilibrio a vivere decentemente una vita che è fatta di tutte le stagioni. La parola autunno deriva dal francese antico “autompne”, in francese moderno “automne”. Più tardi la stessa voce venne a normalizzarsi sul latino “autumnus”. Ci sono esempi rari della parola fino al 12° secolo, ma si diffuse nel XVI.

Quale parola allora veniva usata per parlare di questa stagione di transizione? “Raccolto” era il termine maggiormente usato. Man mano però che lo spopolamento delle campagne venne ad accentuarsi si passò ad usare la parola “autunno”. Nel mondo anglosassone ci sono due termini per descrivere l’autunno: “autumn” e “fall”. Quest’ultimo porta con sè il significato di “cadere”. L’associazione alla caduta delle foglie è immediata. Questa immagine della “caduta dall’alto” caratterizza la parola in maniera quanto mai romantica.

In tutte le arti umane l’autunno, come le sue altre compagne di stagione, primavera, estate e inverno, sono state sempre celebrate. Nella musica, nella pittura, nella letteratura, nella fotografia. L’autunno di Vivaldi delle “Quattro Stagioni”, quello di Shelley nell’ “Ode al vento di Occidente”, di Carducci in “San Martino”, di Kandinsky nella pittura …

ll topos letterario della foglia morta, che cade ed è fragile, è affrontato da Leopardi, nella sua poesia Imitazione. San Martino di Carducci è un bozzetto naturalistico in cui i ritmi agresti autunnali mostrano una umanità semplice e serena. Anche in un’altra poesia della raccolta Odi barbare Carducci parla di autunno:

Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
Io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.

In “Novembre” Giovanni Pascoli l’autunno invece rappresenta la delusione di una primavera che non c’è più. Il sole così chiaro e gli albicocchi in fiore non fanno che perpetuare l’inganno: in realtà è “l’estate, fredda, dei morti”. Anche l’attività tipica autunnale dell’aratura dà spunto per un altro affresco sincero di carattere naturale nella poesia “Arano”, simile a San Martino di Carducci, ma con in più procedimenti tipici pascoliani dell’onomatopea (suo sottil tintinno) e della precisione lessicale (roggio, fratte, porche, marra, e infine moro nel senso di gelso). Analoga la poesia “Sera d’ottobre” in cui ricompaiono i campi arati e le foglie stridule. Importante anche la poesia “Nella nebbia” più descrittiva.

Sul tema della nebbia autunnale ritorna anche Corrado Covoni, poeta crepuscolare. “Soldati” di Ungaretti instaura una immediata, esclusiva, e per questo ancora più toccante, similitudine fra le foglie che cadono e gli uomini, i soldati, che durante la guerra morivano a migliaia. Si noti l’utilizzo del settenario, primo sentore di un ritorno del poeta ai metri classici della letteratura italiana:

Si sta come d’autunno
Sugli alberi le foglie



La nebbia agli irti colli
Piovigginando sale,
E sotto il maestrale
urla e biancheggia il mare;
Ma per le vie del borgo
Dal ribollir dè tini
Va l’aspro odor de i vini
L’anime a rallegrar.
Gira sù ceppi accesi
Lo spiedo scoppiettando:
Sta il cacciator fischiando
Su l’uscio a rimirar
Tra le rossastre nubi
Stormi d’uccelli neri,
Com’esuli pensieri,
Nel vespero migrar.


i avatar galloway
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Re: SPIGOLANDO......

Messaggio da leggere da grazia »

AUTUNNO

Iniziano a cadere le foglie
stanche ormai di ciondolare dai rami,
sazie di sole e di pioggia,
percosse e violentate
dal vento prepotente
che ora le induce a posarsi
librandosi qua e la
come farfalle impazzite.


Grazia
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Re: SPIGOLANDO......

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Accogliere le parole prima di pronunciarle. Plutarco e l’esaltazione dell’ascolto


woman listening to gossip(di Salvatore Primiceri) – Riproposto da Newton Compton Editori in libreria da pochi giorni, “L’Arte di Ascoltare” di Plutarco (traduzione di Mario Scaffidi Abbate) è un saggio estratto dai “Moralia”, dove il filosofo greco tocca un argomento quanto mai attuale.


La relazione con gli altri e la qualità di essa è, infatti, al centro dell’analisi di Plutarco, il quale pone come base la capacità di ascolto. L’uomo deve essere in grado di ascoltare lasciando da parte l’arroganza, l’odio, l’invidia e il protagonismo.
Abbiamo spesso sottolineato come l’ascolto “attivo” sia fondamentale per la costruzione di relazioni efficaci e per la gestione e risoluzione di incomprensioni e conflitti.
All’ascolto deve necessariamente seguire una capacità di analisi e di dialogo.
Plutarco si rivolge ai giovani perchè sono loro che devono, ad un certo punto della loro vita, guidare una società giusta.
Per questo “sbagliano i più a ritenere che i giovani debbano prima esercitarsi nell’arte della parola rispetto a quella di ascoltare” e, già nel 60 d.c. Plutarco vedeva i risultati negativi di tale tendenza.
Se chi gioca a palla “impara contemporaneamente a prenderla e lanciarla” – afferma il filosofo – “la parola bisogna prima imparare ad accoglierla bene per poi poterla pronunciare”.
La capacità di ascolto delle nuove generazioni è influenzata dai propri educatori. Sono infatti essi che devono “rendere le orecchie dei ragazzi sensibili alle parole e insegnare loro a non parlare molto ma ad ascoltare molto”.
E’ grazie a Plutarco che oggi conosciamo il famoso aforisma della predisposizione umana all’ascolto: “la natura ci ha dato due orecchie e una sola lingua perchè siamo tenuti più ad ascoltare che a parlare”.
Tale predispozione naturale è però fortemente a rischio e lo era evidentemente già ai tempi del filosofo. Quanto mai attuale è infatti la tendenza culturale a parlare per primi, aggredire, interrompere, rifiutare l’ascolto e la comprensione degli altri, esaltare solo le proprie ragioni in modo egoistico e con accesa smania di protagonismo.
Plutarco rifiutava tutto ciò ed elogiava quei rarissimi casi di persone che “sanno più di quanto non parlano”.
Plutarco esaltava anche il silenzio, necessario quando si ascolta davvero qualcuno. “Il silenzio è un ornamento sicuro, soprattutto per i giovani. Bisogna evitare di abbaiare ad ogni battuta, aspettando pazientemente che l’interlocutore abbia finito di esporre il suo pensiero, anche se non lo si condivide”. Infine è importante concedere lo spazio di correggersi in quanto bisogna dare il tempo a chi parla anche di chiarire ed, eventualmente, ritrattare qualche affermazione affrettata.
Chi rispetta gli altri mentre parlano ha più possibilità di trarre dalle parole ascoltate qualche spunto utile. Plutarco condanna senza esitazioni anche l’invidia. Essa è dannosa, soprattutto se associata all’odio e alla calunnia.
L’invidia impedisce un dibattito costruttivo e pacato in quanto qualsiasi cosa dica l’interlocutore, risulterà sgradita e inaccettabile.
L’invidia può nascere da rozzezza e ignoranza o da un “ingiustificato senso di superiorità” che si prova verso chi parla, senso di protagonismo che finisce per produrre effetti negativi sulle stesse persone che provano invidia.
L’invidioso misurerà tutto del suo interlocutore per paura di risultare inferiore nelle capacità, misurerà le reazioni del pubblico contando quelli che non applaudono per trarne giovamento.
Per questo oggi, chi è chiamato a risolvere situazioni conflittuali, deve necessariamente far capire alle parti il valore dell’ascolto senza pregiudizio e la capacità di analisi obiettiva dei contenuti di un discorso. Ne nascerà, quasi certamente, un dialogo costruttivo che porterà all’incontro e all’accordo.

Salvatore Primiceri
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Re: SPIGOLANDO......

Messaggio da leggere da heyoka »

Tale predispozione naturale è però fortemente a rischio e lo era evidentemente già ai tempi del filosofo (PLUTARCO).
Della serie, Niente di nuovo sotto il sole, come diceva Qoelet, nella Sacra Bibbia.
La vita è come un ponte, puoi attraversarla ma non costruirci una casa sopra.
(Proverbio dei Sioux)
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Re: SPIGOLANDO......

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“Il Barbiere di Siviglia” di Gioachino Rossini. Musicata su libretto di Cesare Sterbini l’opera ha al suo interno un’aria assai famosa.

Eccola:

[…] La calunnia è un venticello, un’auretta assai gentile che insensibile, sottile, leggermente, dolcemente incomincia a sussurrar. Piano piano, terra terra, sotto voce, sibilando, va scorrendo, va ronzando; nelle orecchie della gente s’introduce destramente e le teste ed i cervelli fa stordire e fa gonfiar. Dalla bocca fuori uscendo lo schiamazzo va crescendo: prende forza a poco a poco, vola già di loco in loco, sembra il tuono, la tempesta che nel sen della foresta, va fischiando, brontolando e ti fa d’orror gelar. Alla fin trabocca e scoppia, si propaga, si raddoppia e produce un’esplosione come un colpo di cannone, un tremuoto, un temporale, un tumulto generale, che fa l’aria rimbombar. E il meschino calunniato, avvilito, calpestato sotto il pubblico flagello per gran sorte va a crepar […].

Calunnia… calunnia… Beh, credo che molti, chi più chi meno, possono dire di essere stati vittime di questo “temporale”. Anche chi scrive, ovviamente: ci mancherebbe che mi fossi fatto mancare questa esperienza. Non sia mai! Fa parte del gioco. Prendere o lasciare. Senza contare gli ostacoli e gli ostruzionismi perpretati dai sempre presenti (ma nascosti nell’ombra) seguaci del capitano Boycott, azioni che già di per sé connotano chi le attua. Che dire? Mah! Verrebbe da dire: «Fermate il mondo… voglio scendere». E invece, alla fine, seppur sconsolatamente, diciamo: «Andiamo avanti».

Stessa frase, quest’ultima, che sicuramente avrà detto anche Rossini la sera della prima di questa sua opera, visto che fu un fiasco. Sì, un fiasco. Strano, vero? Eppure andò proprio così. E pensare che aveva Giove di transito in esatto trigono al Sole natale e Urano in esatta congiunzione alla Parte del Successo di nascita. E allora? Allora anche lì l’ebbero vinta i preconcetti e l’ostilità di buona parte del pubblico che non accettava che un “giovane” ardisse a «presentarsi con un’opera sullo stesso soggetto che aveva reso celebre e amatissimo il compositore italiano Giovanni Paisiello (1740-1816). Costui era infatti autore di un Barbiere di Siviglia rappresentato per la prima volta a Pietroburgo nel 1782, ma nel 1816 ancora talmente popolare in Italia da far sembrare quasi provocatoria la messa in musica dello stesso argomento da parte di un compositore giovane, foss’anche dotato e affermato come il ventitreenne Rossini» [1].

L’ebbero vinta per poco però, ché già dalle repliche successive fu, e i transiti suddetti erano lì a dimostrarlo, un trionfo.
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Re: SPIGOLANDO......

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Re: SPIGOLANDO......

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Un giorno, un uomo non vedente stava seduto sui gradini di un edificio con un cappello ai suoi piedi ed un cartello recante la scritta: “Sono cieco, aiutatemi per favore”.
Un pubblicitario che passeggiava lì vicino si fermò e notò che aveva solo pochi centesimi nel suo cappello.
Si chinò e versò altre monete, poi, senza chiedere il permesso dell’uomo, prese il cartello, lo girò e scrisse un’altra frase.
Quello stesso pomeriggio il pubblicitario tornò dal non vedente e notò che il suo cappello era pieno di monete e banconote.
Il non vedente riconobbe il passo dell’uomo: chiese se non fosse stato lui ad aver riscritto il suo cartello e cosa avesse scritto.
Il pubblicitario rispose “Niente che non fosse vero, ho solo riscritto il tuo in maniera diversa”, sorrise e andò via.

Il non vedente non seppe mai che ora sul suo cartello c’era scritto:

“Oggi è primavera… ed io non la posso vedere”.


&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&
Cambia la tua strategia quando le cose non vanno bene
e vedrai che quasi certamente le cose andranno meglio.


Ciao da Tony Kospan
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Erasmo da Rotterdam e il suo Elogio della follia



Elogio della Follia è un saggio scritto da Erasmo da Rotterdam (1466 – 1536) nel 1509. Opera straordinaria dell’Umanesimo, il testo è considerato una delle più grandi opere del pensiero occidentale, nonché l’elemento stimolatore per la Riforma protestante.

Erasmo (che scrisse il testo in poche settimane, durante un soggiorno con l’amico Tommaso Moro, a cui lo dedica), in questo arguto elogio, veste esattamente i panni della follia. Essa viene allegoricamente rappresentata come una dea in vesti di donna, posta all’origine di ogni bene sia per l’umanità, sia per gli stessi dei che riceverebbero al pari dei mortali i suoi doni. In primo luogo il dono della vita, perché nessuno genera o è stato generato se non grazie all’“ebbrezza gioiosa” della Follia.

È lei che parla, argomenta, espone, critica e tesse le lodi di se stessa. Questo straordinario espediente consentirà al filosofo di passare in rassegna tutte le miserie del genere umano e con una pungente ironia svelerà le sue debolezze, la sua confusione interiore, le sue false illusioni, le sue paure e tutti i suoi limiti. Sotto i colpi ben assestati della Follia nessuno sembra avere scampo. In ordine sono oggetto di critica grammatici, poeti, giuristi, filosofi, teologi, religiosi e monaci, re, cortigiani, vescovi, cardinali, pontefici. Tutti sono messi alla gogna e spogliati della loro autorevolezza.

L’Elogio della Follia è un saggio straordinariamente attuale che presenta un elemento chiave determinante: la stoltezza, alterazione della ragione, si trasforma nella saggezza della natura, pronta a soccorrere l’uomo in preda alla conoscenza. Erasmo infatti afferma che “i più fortunati sono coloro che riescono a tenersi lontani da qualunque disciplina per seguire la sola guida della natura che in nessuna parte è difettosa”. Il filosofo olandese capovolge dunque le consuete opinioni di saggezza e stoltezza. C’è una sola saggezza che aderisce perfettamente alla natura e che solo la stoltezza rende possibile, perché tutte le passioni sono un prodotto della follia. La distinzione tra saggio e folle a questo punto è presto fatta: il primo si fa guidare dalla ragione, il secondo dalle passioni. Qualche lettore potrebbe incautamente pensare che tra le righe, il vero protagonista dell’Elogio possa essere la stoltezza e non la follia, ma Erasmo elogia la stoltezza solo in quanto la ritiene la condizione umana più vicina alla follia, prossima alla follia, che ci spinge in direzione di essa, perché l’uomo solamente rifiutando la ragione umana può accedere alla Follia di Dio. Si aprono a questo punto pagine di critica feroce soprattutto nei confronti dei teologi.

“L’uomo che nasconde la sua follia è migliore dell’uomo che nasconde la sua sapienza”

Nell’Elogio della Follia ci sono per Erasmo diversi livelli di conoscenza del mondo. Il primo è il livello umano, della ragione, che non conduce a nessuna conoscenza; abbiamo poi il livello naturale che ci porta alla conoscenza del mondo; infine c’è il livello della conoscenza assoluta che è quello di Dio, a cui possiamo accedere solo attraverso la follia. L’abbandono assume una connotazione fondamentale. L’incredulità, o meglio, la presa di coscienza della propria incredulità sarà la chiave per vivere follemente il completo abbandono a Dio.

È doveroso ovviamente, ricordare che Erasmo distingue la follia in due specie. Una negativa che “scaturisce dagli inferi” e una positiva che nasce dall’uomo e che tutti desiderano. Quest’ultima è la follia pura, quella intesa da Platone: l’estasi dei poeti e degli amanti.

Secondo Erasmo, gli uomini sprecano la loro vita come se recitassero in una commedia, vestendo un’incredibile alternanza di panni diversi e indossando infinite maschere. Sono solo dei funamboli che cercano si tengono equilibrio nelle svariate convenzioni sociali. Il loro unico obiettivo è ricercare la felicità. Ognuno attua questa ricerca a proprio modo illudendosi persino di poterla trovare. Ma alla fine, colui che è veramente felice non è il saggio, che pensa di conservare tutti i segreti del mondo, bensì il folle. È veramente felice colui che sa godersi la vita, che conosce e ama se stesso, segue le proprie passioni e asseconda i propri impulsi.

Poco prima della conclusione Erasmo esalta in maniera magistrale la magnifica concezione platonica, poco fa menzionata, del rapporto tra follia e amore: “Platone scrisse che il delirio degli amanti è il più felice di tutti. Infatti chi ama ardentemente non vive in se stesso, ma in colui che ama, e quanto più si allontana da sé e si trasferisce in lui, tanto più gode. […] D’altra parte quanto più è perfetto l’amore, tanto più è grande e beato il delirio”.

Ci viene da pensare, alla luce di quanto esposto e di quanto audacemente argomentato dal filosofo, se l’Elogio della Follia conduca davvero verso quel percorso per trovare una possibile verità e se non sia proprio essa ad essere incaricata di tracciare questo percorso. Perché a pensarci bene: “quale azione dei mortali.. non è piena di follia, opera di folli in un mondo di folli?”
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