È vero boom? L’economia ora rallenta ma il nostro Paese arriva in buona salute

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È vero boom? L’economia ora rallenta ma il nostro Paese arriva in buona salute

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Ho seguito con grande interesse gli interventi di economia ospitati su questo giornale negli ultimi giorni. Sono largamente d’accordo con le riflessioni presentate, né potrebbe essere altrimenti dato lo standing degli scriventi. Tuttavia, non mi sembra particolarmente utile mettere insieme analisi strutturali dei problemi dell’Italia con lo scrutinio delle evidenze congiunturali più recenti, soprattutto, come si fa diffusamente, per sminuire la portata dei buoni risultati raggiunti di recente alla luce delle pessime performance degli ultimi 25-30 anni. Vediamo di distinguere i piani.

All’attuale, inequivocabile, rallentamento, di cui dirò alla fine, l’economia italiana arriva in buona salute: posto a cento l’indice del PIL nell’ultimo quarto del 2019, nell’ultimo trimestre del 2023 esso vale 100,1 per la Germania, 101,9 per la Francia, 104,2 per l’Italia. La performance è lusinghiera, certo non da malato d’Europa. È un po’ ingeneroso, come fa il Professor Ciocca (27 marzo) parlare di “rimbalzo”.


Il mio punto di partenza è il pre-covid e quindi considero già sia la caduta sia la risalita (mentre sarebbe corretto derubricare la crescita a “rimbalzo” se considerassimo solo il +8% del PIL del 2021, che segue, appunto, il crollo del 9% nel 2020). Tra l’altro, nel passato – qualcuno lo ricorderà – dopo le crisi l’Italia ripartiva strisciando. Utilizzando la datazione del ciclo di fonte OCSE a sistema con il PIL mensile Confcommercio, possiamo separare tre fasi distinte (da massimo a massimo) che caratterizzano la storia economica italiana negli ultimi 15 anni. La prima si sviluppa tra la metà del 2008 e la primavera del 2011: in 36 mesi il ciclo si chiude e ci lascia con una perdita del 3,7% del PIL.

Superbonus: quando il credito si ‘incaglia’ diventa un “pasto” che non si ripaga da solo
La seconda fase dura di più, 93 mesi (da settembre 2011 a giugno 2019): all’uscita abbiamo l’1,2% di PIL in più, ma, appunto, ci siamo stati quasi 8 anni per riprenderci. La terza fase comincia nella seconda metà del 2019 e dura 37 mesi, cioè fino all’agosto del 2022 (quando comincia un’altra fase ciclica): acquisiamo una crescita rispetto all’inizio del ciclo del 2,7%. Ciò induce ad affermare che questa volta è diverso, è andata decisamente meglio (più crescita in minor tempo). Si dirà: ma abbiamo fatto molto debito pubblico. Certo, ma è successo anche nelle prime due fasi (anzi, la variazione assoluta del debito nel primo episodio fu anche maggiore). Siamo dentro un boom? Certamente no, e qui concordo con Cisnetto, palesemente infastidito dalle roboanti dichiarazioni di taluni politici. Sul punto – oltre a dire che in fondo ci sta vantarsi un po’ anche a sproposito – mi sento di consigliare ai loro collaboratori di evitare di enfatizzare troppo le stime dei dati mensili (e di controllare le revisioni apportate ai dati precedenti, una buona pratica che farebbe scendere i toni sia degli esaltati sia dei critici).


Ora la domanda chiave. La nostra capacità di crescita è, quindi, strutturalmente cambiata? Difficile dirlo, almeno per me. Il vero cambiamento arriverà con riforme e investimenti da PNRR (che poi rappresentano ciò che non è stato fatto negli ultimi trent’anni). Però la manifattura (esportatrice) si è ben ristrutturata nel pre-pandemia, con investimenti in tecnologia forse insufficienti, ma, comunque, significativi (ne ragionava acutamente il Professor Tabellini il 16 marzo). È un mondo produttivo che non aspetta sussidi, si muove e anticipa i trend globali. Come si muove il terziario di mercato, soprattutto nella componente del turismo – inteso in senso lato – la cui sottovalutazione spiega buona parte dei sistematici errori di previsione sui risultati dell’Italia negli ultimi tre anni.

Devo vergognarmi di sostenere che al rallentamento attuale arriviamo in buona salute? Devo negare quest’evidenza sulla scorsa di pregressi endemici problemi? Non credo. Anche perché ci pensa la congiuntura a riportarci tutti coi piedi per terra. Essa è in forte peggioramento nei primi mesi del 2024. Nessun allarme, ma qualche fondata preoccupazione, prevalentemente centrata sulla debolezza dei consumi, peraltro già manifestatasi nell’ultimo quarto dello scorso anno.

L’addensarsi di variazioni negative degli indicatori in alta frequenza coinvolge la fiducia delle imprese, le vendite al dettaglio, la produzione industriale e, a gennaio, per la prima volta da luglio scorso, anche l’occupazione (e qui c’è l’esempio classico del rischio confusione quando si valutano dati provvisori ottenuti attraverso complicate tecniche statistiche: è vero che a gennaio si palesa una caduta degli occupati di 34mila unità, ma dicembre è stato rivisto al rialzo da 23,754 milioni a 23,772 milioni; quindi siamo dispiaciuti, ma non possiamo essere dispiaciutissimi).

Il peggioramento del quadro economico è completato dalla doppia variazione negativa congiunturale della stima sui consumi nei primi due mesi del 2024: -0,4 e -0,2%. La ricchezza finanziaria reale si riduce. Ha sostenuto i consumi per tutto il 2022 e per la prima parte del 2023 e ora la ricostituzione di scorte di risparmio presso le famiglie compete con in consumo corrente. Ne deriva che il PIL nel primo trimestre di quest’anno sarebbe bloccato, più o meno, sui livelli del trimestre precedente. Le traduzioni in termini tendenziali sono ancora positive: +0,4 e +0,8% per i consumi nei primi due mesi e +0,3% per il PIL nel primo quarto dell’anno in corso. Ma è evidente che questo passo è lento, troppo lento, non coerente con l’obiettivo di crescita annuale che non deve discostarsi troppo dall’1%. Seppure una manovra correttiva sia molto improbabile, comunque il percorso di aggiustamento pluriennale partirebbe in salita se chiudessimo il 2024 con una variazione percentuale del PIL limitata al mezzo punto.

La crescita, quindi, è tutta da costruire. L’accelerazione necessaria è possibile, a due condizioni. La prima è che l’inflazione continui a declinare a partire da aprile, dopo la risalita che prevediamo per marzo (all’1,5% tendenziale dallo 0,8% di febbraio). La seconda riguarda la stabilizzazione dello scenario internazionale prima che le tensioni sui costi di trasporto, logistica e materie prime si trasmettano ai prezzi finali o che si generino razionamenti sulle importazioni e tagli al volume del commercio internazionale. Nel frattempo, se, come suggeriva il Professor Tabellini, si pensasse a quella che una volta si chiamava spending review non sarebbe male. Ricordate? Se ne discettava ogni giorno fino a un paio d’anni fa, e ciascun italiano aveva il suo Commissario preferito.
Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi ci governa. (Ennio Flaiano)
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