La Lega è scomparsa in tutto il Centrosud. Meloni lancia la sfida al fronte sovranista

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La Lega è scomparsa in tutto il Centrosud. Meloni lancia la sfida al fronte sovranista

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Le vicende giudiziarie che lambiscono il quartier generale leghista e la famiglia “acquisita” del segretario Salvini – complice la quasi parentela con il pregiudicato Denis Verdini – l’affare degli appalti Anas e dello spoils system selvaggio hanno fiaccato i vertici di un partito che già non gode di ottima salute. I dieci anni di leadership, festeggiati pochi giorni fa, pesano e si notano tutti.

Come se non bastasse, la preoccupazione che attanaglia in questi giorni il vicepremier e i suoi uomini è quel 7-8 per cento che la gran parte dei sondaggi nazionali registrano da qualche settimana, il 9 i più ottimisti. Frutto di una media impietosa tra i risultati ancora a due cifre delle regioni del Nord in cui il partito ancora esiste per davvero (Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna) e il tracollo impietoso nel resto del Paese.

Il fatto è che la Lega di Matteo Salvini è pressoché scomparsa dalla mappa geografica italiana sotto la “linea gotica”. Non c’è sondaggio locale che lasci scampo in tutte le regioni al di sotto del confine immaginifico che unisce le province di Massa Carrara e Pesaro-Urbino: l’ex primo partito italiano è precipitato in alcuni casi sotto il 5 per cento. Il progetto Lega nazionale è ufficialmente fallito.

I sondaggi che ha in mano il governatore campano Vincenzo De Luca darebbero la formazione di Salvini appunto a cavallo del 4, a Bari città, dove si vota tra pochi mesi, l’ultimo Winpoll attesta un impietoso 4,6 a fronte del 7,4 di Forza Italia e del 21,3 di Fratelli d’Italia. L’ultima rilevazione di un istituto locale in Calabria (ma risale a più di un mese fa) registrava un modesto 5,9. E le cose sembra vadano anche peggio in Sicilia, dove dalle Politiche ad oggi è andata in scena una fuga di consiglieri e amministratori. Il Ponte salviniano, se ci fosse, oggi unirebbe due disastri politici a lui riconducibili.

Questi dati sono planati sulla scrivania dello studio di Giorgia Meloni, a Palazzo Chigi. E, stando a chi le è vicino e la consiglia, avrebbero ispirato le ultime mosse della presidente del Consiglio. Alcune in apparenza incomprensibili. Come il colpo di scena della bocciatura finale del Mes. Per non dire delle chiusure in tema di immigrazione, succursale albanese inclusa. Ma soprattutto, quei sondaggi sarebbero alla base di una scelta proiettata sulle Europee: la candidatura della premier da capolista di FdI in tutte le circoscrizioni. Con l’intento di spingere al massimo dei suoi giri il motore del partito, per assestare una sorta di colpo di grazia agli alleati-avversari, ridotti a “vassalli”, e garantirsi una navigazione ancora più blindata negli anni a seguire.


Più che accreditarsi quale futuro punto di riferimento di un’area moderata vasta, interlocutrice credibile del Partito popolare europeo e perfino grande elettrice del prossimo presidente della Commissione, Meloni appare più impegnata in una campagna elettorale assai aggressiva e dai toni quasi anti europeisti proprio con lo scopo di scavalcare a destra l’alleato Salvini.

Una vera e propria “opa”, la sua. L’obiettivo potrebbe essere duplice, racconta un “suo” ministro di lunga esperienza politica. Il primo, prosciugare il bacino elettorale della Lega, quanto meno in tutte le regioni italiane del Centrosud e, laddove possibile, perfino nella roccaforte del Nordest. Fare così lievitare il consenso di Fdi portando l’asticella ben oltre il 30 per cento. Per lei sarebbe un successo, sufficiente a compensare nel frattempo il dimagrimento dei due partiti di governo ridotti a una cifra. In quel caso, la tenuta della maggioranza e del governo non subirebbe contraccolpi destabilizzanti.

Ma il secondo e più subdolo obiettivo sarebbe quello di assestare una spallata definitiva alla leadership di Matteo Salvini: il vicepremier che fin dall’insediamento non ha perso occasione per distinguersi, prendere le distanze, criticare, puntualizzare, fare il controcanto, insomma. Aprire una resa dei conti finale nella Lega, allora, potrebbe essere l’esito del tracollo elettorale di un partito che – va ricordato – alle Europee del maggio 2019 aveva raggiunto il suo picco storico, col 34,3 per cento. Ridimensionata poi alle Politiche del settembre 2022 con un già catastrofico 8,9 per cento e la perdita del 70 per cento dei consensi.

Se quel risultato peggiorasse ulteriormente nel giugno prossimo, allora si aprirebbero nuovi scenari. Meloni siede in riva al fiume. Consapevole che una scalata alla leadership da parte di Luca Zaia o di Massimiliano Fedriga, i governatori più accreditati alla successione, col supporto di Giancarlo Giorgetti al governo, regalerebbe a lei un futuro meno turbolente nell’esecutivo. E consentirebbe forse di impostare un dialogo più diplomatico con gli altri leader europei. Il conto alla rovescia, dentro e fuori la Lega, è appena iniziato.
Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi ci governa. (Ennio Flaiano)
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