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Nel paradigma bianco-nero-giallo-rosso della classificazione razziale che si afferma tra fine Settecento e inizio Ottocento, il giallo ha una collocazione ancora incerta: nella prima edizione del Systema naturae, pubblicata nel 1735, il termine usato da Linneo per definire il colore della razza asiatica è fuscus, termine latino che noi traduciamo con fosco, oscuro, scuro, bruno, addirittura con nero. Nella terza edizione, che compare nel 1740 con traduzione tedesca, fuscus è reso in tedesco con gelblich, giallognolo, giallastro, e nella decima edizione, del 1758-59, fuscus è sostituito da luridus, che non è esattamente equivalente al nostro lurido; significa giallastro, livido, pallido, squallido, mentre solo gli occhi sono rimasti fusci. Lo ha notato Walter Demel nel libro dal titolo Come i cinesi divennero gialli, Alle origini delle teorie razziali (Vita e Pensiero, Milano 1997), ma la tesi viene approfondita da Michael Keevak, il quale sostiene che la scelta di luridus non si basa semplicemente sulla ricerca di un termine che fosse intermedio tra bianco e nero, ma contiene suggestioni mediche che richiamano l’itterizia e analogie botaniche con un intero ordine di piante che Linneo chiama Luridae, caratterizzate come sospette e velenose (Becoming Yellow. A Short History of Racial Thinking (Princeton University Press, Princeton-Oxford 2011).
Luridus ha però vita breve e le successive edizioni, la dodicesima e la tredicesima – quest’ultima curata dal biologo tedesco Gmelin – propongono nuovi criteri, nuove divisioni e nuovi termini. Anche Buffon, il grande rivale di Linneo che preferisce divisioni meno rigide e si ferma a un approccio più empirico, sembra a tratti condividere il paradigma bianco-nero-giallo-rosso. Anche Kant, che pure afferma di non essere addentro in questo tipo di ricerche, abbozza una teoria delle razze e indica il giallo-oliva come il colore degli indiani.
Il ruolo decisivo nella creazione dell’uomo giallo è da attribuire però a Blumenbach che, insoddisfatto della coincidenza di razze e continenti, nella terza edizione, del 1795, del De generis humani varietate nativa, individua cinque razze sulla base dell’analisi della forma del cranio, mentre il colore passa in secondo piano, senza essere soppresso. Le varietà vengono elencate in ordine gerarchico, in base al concetto di deviazione della forza generatrice (nisus formativus, Bildungstrieb), di «degenerazione». La prima è la razza caucasica, la razza bianca, in cui il colore è assente, che non è quindi macchiata da pigmenti, razza "originaria" (il termine caucasico compare qui per la prima volta), che comprende i popoli europei e asiatici conosciuti in Occidente nel mondo antico; da questa razza sarebbero derivate le altre per effetto di pressioni ambientali e abitudini alimentari. Seguono quindi la mongolica o razza gialla, l’etiopica o razza negra, l’americana o razza rossa e la malese o razza olivastra.
Nonostante il razzismo di Blumenbach fosse circoscritto e qualche volta contraddetto (cfr. Luigi Marino, I maestri della Germania. Göttingen 1770-1820, Einaudi, Torino 1975), la sua fama di scienziato contribuì alla diffusione del paradigma razziale. La novità consistette nell’attribuire il colore giallo alla razza mongolica: in questo modo cinesi e giapponesi, sottovarietà (Unterarten) di questa razza, erano finalmente diventati gialli, un verdetto che si affermò per tutto l’Ottocento e oltre (Keevak, ivi, pp. 64-65). Va precisato che i termini latini usati da Blumenbach sono gilvus e buxeus, aggettivi piuttosto rari nel latino classico, ma probabilmente in uso nel Settecento in ambito scientifico. Gilvus significa giallo come il miele, ma indica anche il color isabella dei cavalli, buxeus è il colore giallastro del legno del bosso:
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Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi ci governa. (Ennio Flaiano)