Ho spesso discusso Fausto Bertinotti, ma qui conviene leggerlo

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Ho spesso discusso Fausto Bertinotti, ma qui conviene leggerlo

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Viviamo ormai in tempo di guerra. La frase è dura da dire perché la guerra sembra incongrua con questo nostro mondo contemporaneo. Pur sempre orribile, era sembrata lontana, semmai ci sentivamo minacciati dal rischio totale della guerra atomica, la guerra mondiale. Ora la guerra ce l’abbiamo addosso, in uno dei pezzi nei quali essa assume la sua forma attuale. La guerra scatenata dall’aggressione della Russia di Putin in Ucraina è una delle oltre 60 che occupano la scena del pianeta. La terza guerra mondiale a pezzi coinvolge ora direttamente l’Europa.

Al tempo della pace, almeno come volontà dichiarata da tutti i protagonisti della scena mondiale e come tendenza di fondo avvertita come necessità storica, tendenza che ha connotato di sé tutto il secondo dopoguerra, dopo la vittoria contro il nazifascismo, ora siamo piombati nel tempo di guerra. L’orrore delle cronache di distruzione e di morte che provengono dall’Ucraina non si diluisce, se si allarga lo sguardo fino a comprendere tutte le guerre in atto nel mondo intero. Niente può sovrastare la distruzione di vite umane e con essa la sistematica aggressione del partito della guerra alle culture di pace e al patrimonio di umanità di cui, invece, avremmo ancor più bisogno oggi. Le conseguenze sociali anche sulle popolazioni non direttamente coinvolte non sono solo un danno collaterale, sono parte esse stesse della guerra. Già oggi possiamo misurarle e vedere quali conseguenze drammatiche producono nella vita di intere popolazioni, di classi, di ceti sociali, soprattutto in quelle già provate e disposte al rischio di povertà.

Bisognerebbe da questo punto di vista che ogni analisi, ogni discorso sulla guerra, incominciasse e finisse con la mai sufficientemente citata ballata di Bertolt Brecht: “La guerra che verrà non è la prima, prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti, fra i vinti la povera gente faceva la fame, fra i vincitori faceva la fame la povera gente, ugualmente”. Ora incominciano a fare la fame per la guerra anche popoli non direttamente coinvolti in essa. In questa guerra sono venute assumendo un peso forte le sanzioni economiche, quelle annunciate in un crescendo senza fine e quelle concretamente già effettuate. Le conseguenze pesano su chi le subisce, ma anche su chi le adotta. Qui non si discute sull’efficacia politico-strategica delle sanzioni, solo si constata che esse non colpiscono i governi, gli Stati, ma i popoli. Oggi Brecht dovrebbe allargare il campo delle povertà indotte dalla guerra, oltre i contendenti diretti, oltre l’aggredito e l’aggressore, oltre vincitori e vinti.

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La storia della fame nel mondo vede aprirsi un nuovo spaventoso capitolo. Se si guarda a una delle ragioni economiche della guerra nel Donbass, il possesso delle risorse contenute nelle sue terre e nella sua storia economico-sociale, e la si mette in relazione con la carestia che investe le popolazioni dell’Africa subsahariana, dall’Eritrea al Senegal, non si può non esserne colpiti. Queste zone dipendono per oltre il 50% delle importazioni di grano da Russia e Ucraina. Nel Nordafrica e in Medio Oriente ci sono Paesi che importano fino al 90% del loro cibo, mentre la maggioranza dei bambini soffrono già di malnutrizione. Adesso cosa sta accadendo loro? Il rischio di carestia si fa immanente, a causa proprio degli effetti della guerra, degli aumenti dei prezzi e del blocco dei trasporti. I prezzi dei prodotti alimentari sono diventati i più alti degli ultimi 30 anni, chi ne paga le conseguenze? C’è un interrogativo politico che cresce in questi Sud del mondo, proprio di fronte alla guerra e alle sue conseguenze economiche e sociali. Esso sta già prendendo la forma di “prima il pane, prima la vita”, prima della stessa natura dei regimi politici, prima della democrazia. Mi ha colpito quel che ha detto Marwa, una giovane professoressa tunisina. Undici anni fa, Marwa si era mobilitata contro il regime di Ben Ali, era andata in piazza per chiedere democrazia, aveva lottato per questo.

Oggi è ancor lei, con i suoi ideali, ma ha detto una cosa che dovrebbe far pensare anche in questa parte del mondo, quello che si autodefinisce “Occidente”. Marwa ha detto: «Possiamo rinunciare a tutto, ma non al pane, senza il pane siamo un paese finito». E ancor più dovrebbe far riflettere ciò che Marwa ha detto dopo, quando ha detto che la democrazia non è più la sua priorità. Ha detto infatti: «Non importa se c’è o no il Parlamento, oggi l’importante è che il presidente risolva la crisi alimentare che sta vivendo il Paese». Pane e pace era la bandiera del Movimento operaio delle origini. Non è certo un caso se torna così prepotentemente d’attualità nel tempo della guerra e se ci viene portata dal Sud del mondo, dalle povertà, ma non è solo del Sud. Se riesci a bucare la coltre costituita dall’informazione organizzata per il consenso e dalla morte della politica istituzionale allora puoi già vedere cosa si genera nel profondo delle realtà sociali, della società civile anche qui, in Italia e in Europa. È una realtà che si vorrebbe nascondere trasformando attraverso un’operazione ideologica tanto rozza quanto diffusa nelle classi dirigenti, la guerra di invasione in Ucraina in una contesa generale tra autoritarismo e democrazia.

Per farlo, si nasconde persino che se così fosse la seconda sarebbe in termini di popolazioni interessate a stretta minoranza nel mondo, così come si nasconde che il discrimine che si vorrebbe fissare con la guerra e con gli aggressori non dovrebbe valere mai per i mercati, per la finanza, per gli scambi, in realtà per l’economia. Ma le parole che vengono dalla Tunisia smascherano il trucco ideologico perché ci conducono a interrogarci sullo stato delle nostre democrazie, quelle che ora vengono assolutizzate e mondate di ogni loro peccato solo per dare una certa veste ideologica alla guerra, assai diversa dalla sua natura concreta. Perché prima il pane e non insieme pane e pace? Pane e democrazia? Perché sebbene i termini molto diversi, in Europa come in Tunisia, la democrazia reale, quella in cui viviamo, ha tradito le promesse della democrazia. Nella sua promessa c’era il pane per tutte e per tutti, al di là della metafora, in Italia la promessa della Costituzione democratica, diversamente da quelle liberali, è stata proprio quella di considerare la democrazia come sinonimo di eguaglianza. I ceti abbienti possono in certi tempi frequentare i terreni della democrazia a prescindere, il popolo no.

Il popolo deve poter dare un senso dalla democrazia attraverso le aspettative di futuro, la natura dei rapporti sociali in atto, le possibilità concrete di migliorare la propria condizione di lavoro e di vita. I costituenti della repubblica italiana lo avevano ben chiaro e lo avevano reso cultura del tempo con il rapporto fissato tra democrazia e uguaglianza. Se non vuoi guardare alla devastazione della guerra, all’impoverimento delle genti, guarda come ha votato la Francia e prova a capire come voterà. L’alternativa non è tra libertà e condizionatore, come sgangheratamente ha avuto modo di dire il nostro presidente del Consiglio. Non è cioè tra libertà e bisogni da soddisfare. La prima alternativa è tra pace e guerra, solo nella pace ci può essere la giustizia sociale e una democrazia di massa viva e partecipata. Per questo, un’alternativa allo stato di cose presenti, alle attuali politiche dei governi, si costituisce dal basso, con l’impegno nella società, coniugando l’impegno per la pace con quello per il soddisfacimento dei bisogni, in una pratica sociale, politica e culturale che è il fondamento di ogni democrazia vivente. Di questo parla già intanto, come può, la marcia Perugia-Assisi.
Scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne. Amos 5,24
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