Re: Media e dintorni

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grazia
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Re: Media e dintorni

Messaggio da leggere da grazia »

Un confronto televisivo intenso in cui la femminista più tosta incastrò il giornalista più scaltro sulla sua condotta giovanile in Africa

Al candido entusiasmo maschile con cui Indro Montanelli raccontava in TV l’esperienza giovanile di soldato in Abissinia si contrappose, ad un certo punto, la chiara voce femminile di una bellissima ragazza che gli chiese: «Quindi lei ha violentato una bambina di 12 anni?».
Lei era una giovane Elvira Banotti, una vita di battaglie femministe ancora tutta davanti e da vivere, e il programma in cui accadde il confronto era L’ora della verità di Gianni Bisiach, siamo nel 1972. L’irruenza della Banotti di fronte al guru del giornalismo lasciò basiti gli altri ospiti nello studio e il conduttore stesso, poche battute ancora tra i due e la trasmissione s’interruppe.


Dieci anni più tardi, senza interlocutori a spiazzarlo con la disarmante verità, Indro Montanelli raccontò tutta la sua versione dell’avventura in Africa alla telecamera di Enzo Biagi. Ripercorriamo i fatti narrati.
Nel 1935 l’Italia invase l’Etiopia. Montanelli lavorava già come giornalista per l’americana United Press, si propose come inviato in zona di guerra, ma l’agenzia non acconsentì perché essendo italiano non avrebbe potuto essere obiettivo nelle sue corrispondenze, così lasciò il giornale e si arruolò volontario.
A soli 23 anni fu messo a capo di un esercito indigeno di 100 uomini, senza conoscere nulla dell’Africa e lui stesso riconosce l’errore delle forza armate in questo. Ma furono due anni bellissimi, dice.

Ebbi due anni di vita all’aria aperta, bella, di avventura e in cui credetti di essere un personaggio di Kipling. (da Cento anni)

Quando Enzo Biagi introduce l’argomento della giovane moglie che Montanelli ebbe in Africa, il fondatore de Il Giornale risponde con allegria leggera:

Regolarmente sposata, in quanto regolamente comprata dal padre. Aveva 12 anni, ma non mi prendere per un bruto: a 12 anni quelle lì sono già donne. […] Avevo bisogno di una donna a quell’età. Me la comprò il mio sottufficiale insieme a un cavallo e un fucile, in tutto 500 lire. […]. Lei era un animalino docile; ogni 15 giorni mi raggiungeva ovunque fossi insieme alle mogli degli altri. (Ibid.)


""Quella lì, comprata, animalino docile"". Sono parole effettivamente pesanti e che non credo andrebbero in onda in nessuna trasmissione di oggi. Non che sia cambiata del tutto la mentalità, ma senz’altro la forma di esprimere certi pensieri è percepita come intollerabile.

Annalisa Teggi
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grazia
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Re: Media e dintorni

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Dopo l'uccisione negli Usa di George Floyd l'associazione milanese chiede che venga tolta la statua e cambiata l'intitolazione dei giardini pubblici. Salvini: "Che vergogna". Parte del Pd sostiene la proposta di discuterne, ma dal capogruppo arriva il no

di ZITA DAZZI

la Repubblica
11 giugno 2020


L'anno scorso le donne di "Non una di meno" l'avevano imbrattata con la vernice rosa durante il corteo dell'8 marzo. Ora sono i 'Sentinelli di Milano', a fare una lettera appello al sindaco Beppe Sala e al Consiglio comunale per chiedere di rimuovere la statua dedicata a Indro Montanelli, giornalista e scrittore che in Africa durante il colonialismo italiano si macchiò della colpa di fare di una bambina eritrea la sua concubina. A lui la giunta del sindaco Gabriele Albertini intitolò anche il giardino di Porta Venezia dove c'è la statua a lui dedicata. Un tema molto controverso che viene adesso legato all'omicidio in America dell'afroamericano George Floyd e che scatena il dibattito in Rete e che in futuro approderà in aula a Palazzo Marino.


L'appello per la rimozione è sulla pagina Facebook dell'associazione che si batte per i diritti: "A Milano ci sono un parco e una statua dedicati a Indro Montanelli, che fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale, durante l'aggressione del regime fascista all'Etiopia. Noi riteniamo che sia ora di dire basta a questa offesa alla città e ai suoi valori democratici e antirazzisti e richiamiamo l'intero consiglio a valutare l'ipotesi di rimozione della statua, per intitolare i Giardini Pubblici a qualcuno che sia più degno di rappresentare la storia e la memoria della nostra città Medaglia d'Oro della Resistenza", si legge nel post subito condiviso e approvato da migliaia di persone. Molte però anche le critiche arrivate in coda allo stesso post, come avvenne l'anno scorso dopo la manifestazione delle femministe.


"Giù le mani dal grande Indro Montanelli. Che vergogna la sinistra, viva la libertà", interviene il leader della Lega Matteo Salvini, dopo di cambiare l'intitolazione a Indro Montanelli dei Giardini di via Palestro a Milano. Ma i Sentinelli non arretrano: "Dopo la barbara uccisione di George Floyd a Minneapolis le proteste sorte spontaneamente in ogni città con milioni di persone in piazza e l'abbattimento a Bristol della statua in bronzo dedicata al mercante e commerciante di schiavi africani Edward Colston da parte dei manifestanti antirazzisti di Black Lives Matter - scrivono ancora su Fb - richiamiamo con forza ogni amministrazione comunale a ripensare ai simboli del proprio territorio e a quello che rappresentano".

Della richiesta si farà portatrice Diana De Marchi, consigliera comunale del Pd, che potrebbe chiedere il dibattito in aula a Palazzo Marino. "Ne parlerò con il gruppo quando riceveremo la richiesta - spiega De Marchi - Certo, sarebbe tema della mia commissione e la storia tra Montanelli e una giovanissima donna eritrea così descritta era una brutta pagina per i diritti. Ma devo anche andare a ricostruire la proposta della statua, come era stata valutata, perché molti di noi non c'erano a quel tempo e nemmeno io". Sulla discussione in consiglio è d'accordo anche Alessandro Giungi (Pd): "In aula discutiamo di tutto e se ci sarà richiesta in tal senso, perché non dovremmo farlo? Ma non ho mai detto di essere per lo spostamento della statua. Montanelli è stato comunque un protagonista della vita cittadina".

L'idea piace ad Arci Milano che si associa alla richiesta dei Sentinelli, mentre una bocciatura netta arriva dal capogruppo Pd in Comune, Filippo Barberis: "Sono molto, molto lontano culturalmente da questi tentativi di moralizzazione della storia e della memoria che trovo sbagliati e pericolosi. Atteggiamenti che hanno a che fare più con la categoria della censura che della riflessione critica e che hanno ben poco a che vedere con la sensibilità della nostra città che da sempre si confronta con le contraddizioni e la complessità della societa e dei suoi personaggi. Montanelli ha commesso un errore grave, imperdonabile. Se questo fosse però il criterio per rimuovere statue o cambiare il nome alle vie dovremmo rivedere il 50% della toponomastica mondiale. Sarebbe inoltre poco comprensibile dedicare tempo all'argomento in Comune in questa delicatissima fase dove in testa e a cuore dovremmo avere, e a tutti gli effetti abbiamo, ben altre priorità e progetti".

Protesta anche l'ex vicesindaco e vice presidente di Regione Lombardia Riccardo De Corato, che fu tra i promotori della installazione della statua: "Continuano gli attacchi alla memoria di Indro Montanelli, uno dei più grandi giornalisti, che con il suo lavoro ha dato lustro all'Italia. La 'Floyd mania' sta offuscando le menti di qualche consigliere comunali: confondere l'omicidio di un povero uomo di colore con la statura culturale di Montanelli, ferito per le sue idee liberali dalle Brigate Rosse, e voler addirittura aprire un dibattito in consiglio comunale è vergognoso".

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Ho sempre ammirato Montanelli come giornalista e scrittore . tengo diversi suoi libri
ma non conoscevo l'u o m o e purtroppo a quel tempo non era ancora padre e si è
comportato come tanti cosiddetti più che uomini MASCHI.
..
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giaguaro
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Re: Media e dintorni

Messaggio da leggere da giaguaro »

Forse bisognerebbe cercare di capire come sia andata a finire questa storia d'amore di Montanelli e moglie.
Il fatto che sia stata venduta dalla propria famiglia e acquistata da Montanelli, o chi per lui, potrebbe essere ininfluente, se poi si è comportato come un marito normale, considerandola come moglie regolare sia quando era in Etiopia e sia quando è rientrato in Italia.
Ciò, in quanto il padre l'ha venduta secondo il modus operandi in uso nella cultura di quei paesi. Effettivamente la giovane età della bambina è condannabile. Ma questo è dovuto anche alla mentalità culturale di quei popoli.
Se però Montanelli, quando è rientrato in Italia, si è dimenticato dell'esistenza della consorte, soprattutto perché troppo giovane e infinitamente povera e di colore, allora si è macchiato di un peccato difficilmente perdonabile. Mi auguro che le cose non siano andate in questo modo; perché, altrimenti, il suo comportamento offusca la sua immagine più dell'effettiva rimozione della sua statua!
Non posso insegnare niente a nessuno, posso solo cercare di farli riflettere - SOCRATE
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grazia
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Re: Media e dintorni

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PICCOLA STANZA
di Indro Montanelli

Mussolini mi disse: «Il razzismo è roba da biondi»


Che il fascismo sia stato, o meglio sia diventato antisemita, non c'è nessun De Felice che possa contestarlo. Faccio questa distinzione fra essere e diventare in base a una modesta esperienza personale. Io ho parlato con Mussolini una sola volta. Fu quando, nel 1934, mi convocò a Palazzo Venezia per elogiarmi per un articolo scritto contro il razzismo su L'Universale, piccolo quindicinale fascista o che si presumeva tale, come fascista ero, o presumevo di essere io. Ricordo le sue precise parole: «Bravo! Il razzismo è roba da biondi!». Purtroppo non passano quattro anni che il razzismo diventa roba anche da bruni perché Mussolini vara leggi razziali. Lei dice che questo fu colpa anche di Grandi che, come presidente della Camera, poteva opporsi. Ma questo vuol dire che lei non ha nemmeno la più lontana idea di cosa fosse la Camera fascista.

Da «Corriere della Sera», 1 luglio 1996
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grazia
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Re: Media e dintorni

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LA STANZA di Indro Montanelli

Sabato, 6 Gennaio 2001


Giulio Cesare fu "anche" una grande canaglia

Caro Montanelli,
Mi tolga una curiosità. Quando lei in una «stanza» si è espresso sulla figura di Giulio Cesare, lo ha definito uno dei tre generali e uomini di Stato più grandi che mai ci siano stati (gli altri due sono Napoleone ed Alessandro), ma anche uno dei più grandi furfanti. Posso chiederle degli esempi di questa furfanteria?

Sergio Trojer, strojer@bellsouth.net

Caro Trojer,
V olentieri. Ma tengo subito a dirle che questi esempi non sono farina del mio sacco, ma di quello degli storici dell’epoca di Cesare: da Tacito, il più severo, a Svetonio, il più pettegolo.
Essi raccontano che Cesare veniva da una famiglia fra le più nobili di Roma, quella dei Giuli, ma già da alcune generazioni caduta in miseria, come dimostra il fatto che si era ridotta a vivere non nei «quartieri alti» - come oggi si direbbe -, ma nella Suburra, il rione più proletario dell’Urbe. Cesare quindi entrò in politica senza soldi né appoggi della parte aristocratica e conservatrice, che anzi lo considerava un transfuga come successore di suo zio Mario, il capo del partito popolare che il dittatore Silla aveva spazzato via con un «golpe» costato all’Urbe ventimila morti. Il giovanissimo Cesare avrebbe potuto essere uno di quelli, ma Silla lo graziò.
Tornato a Roma dopo il confino, per finanziare la propria campagna politica, Cesare attinse a piene mani dai suoi amici, e specialmente da Crasso, il re dei «palazzinari» di allora, che Cesare, una volta al potere, ricompensò con gli appalti di Stato: il che dimostra che le «tangenti» non sono un’invenzione della politica odierna. Di suo, non diventò mai ricco. Da vero grande politico, usava i soldi per acquistare l’unica cosa che veramente gl’interessava: il potere.
Con identica disinvoltura trattò le donne. Ebbe tante mogli, tutte sposate quando gli faceva comodo il loro nome e la loro dote e ripudiate quando non gli servivano più. Senza parlare delle clandestine fra le quali ci fu anche Servilia, la sorellastra del suo arcinemico Catone, talmente a lui devota che quando capì di avere esaurito il suo turno, gli mise nel letto, come sua rimpiazzante, la figlia Terzia; e Cesare la ricompensò facendole assegnare i beni di certi senatori proscritti per un terzo del loro valore: Tertia deducta commentò quella linguaccia di Cicerone.
Tutto questo, a Roma, era talmente noto che quando i soldati vi riportavano in trionfo, dopo ogni sua conquista, il loro amatissimo Generale, depositate le armi - come era d’obbligo - prima di entrare in città, gridavano alla gente affacciata alle finestre: «Uomini, chiudete in casa le vostre donne: vi abbiamo riportato il moechus calvus , il puttaniere zuccapelata».
Perché l’unica debolezza di Cesare era la sua calvizie. Svetonio racconta che la mattina passava ore ad accomodarsi i pochi capelli tirandoli non dalla fronte alla nuca, ma dalla nuca alla fronte con frangia di ricciolini, in contrasto col suo volto non bello, ma straordinariamente virile: occhi neri e vivi, bocca arcuata e amara, incorniciata fra due rughe dritte, scavate e col labbro di sotto sporgente su quello di sopra. Così lo descrivono sia Plutarco che Svetonio, il quale conferma la voce della sua omosessualità, che nella Roma di allora non faceva del resto scandalo. «Il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti» lo definiva il suo amico Curione.
Come vede, caro Trojer, definendo Cesare anche una grande canaglia, non mi sono inventato nulla. Ma ci vuole, per restare nel vero, quell’«anche» che Bertolt Brecht trascurò quando scrisse «Gli affari del signor Giulio Cesare».
Perché è vero che tra quegli affari ce ne furono anche di sporchi. Ma essi non riescono a fare che una piccola macchia nella grandiosa vita di un condottiero e statista che fece di Roma il «caput mundi» e diede a tutta l’Europa una lingua, la legge e un’amministrazione civile e militare al cui modello le sue varie nazioni seguitano a ispirarsi. Ecco a cosa si riferisce quell’«anche». Non lo perda mai di vista.
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Re: Media e dintorni

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LA STANZA
di Montanelli


5 Gennaio 2001

Case chiuse: modello "Rosa" senza vetrina

Caro Montanelli,
Approfitto del comune amico Eugenio Melani per spedirle questa mia, a proposito del suo editoriale sulle case chiuse. Mi era venuta l’idea di presentarle la mia amica Rosa, bella di notte o piuttosto di pomeriggio, come esempio della soluzione olandese del problema. La mia strada nel centro storico di Amsterdam viene intersecata da una viuzza dove 4 o 5 donne aspettano i clienti dietro le rispettive vetrine. Una di loro è una bionda che assomiglia a Lana Turner. Come io abbia fatto la sua conoscenza sarebbe una storia troppo lunga; vengo dunque al sodo: Rosa è un’imprenditrice indipendente, senza tenutrice né protettore. Affitta la sua vetrina e le sue stanzine direttamente dal proprietario della casa , paga le tasse ed è iscritta al sindacato che si occupa anche dell’assistenza sanitaria. Non vive ad Amsterdam, ma a Haarlem. Fa la pendolare 3 volte alla settimana. Comincia a lavorare alle 10.30. Dalle 12.00 alle 12.45, pausa. Alle 18.00 chiude bottega, checché sia la condizione del cliente. Alle 18.30, impeccabile in tailleur, riprende il treno. È sposata, ha due figlie. L’una studia Economia all’università, l’altra fa l’impiegata in una banca. Il marito lavorava nell’edilizia e ora è pensionato. Soffre di asma, ma fa la spesa e cucina. Quando Rosa torna dal lavoro, trova la tavola apparecchiata e la cena pronta. Mi dice che la professione non le piace, ma che la fa per per i soldi. Ha l’intenzione di cambiare mestiere fra 2 anni, e aprire, con i risparmi, una boutique di moda. C’è solo quel marito che si stenta a capire. Ma l’Olanda è un Paese di Principi Consorti...
Claudia Von Canon


Cara Signora,
Scusi se ho amputato, della sua inattesa e graditissima lettera, tutta la parte relativa ai nostri incontri, purtroppo soltanto immaginari. Ho pensato che non avrebbero avuto nessun interesse per i nostri lettori. Eppoi mi premeva troppo arrivare al tema centrale e tornato, senza mia sorpresa, di grande attualità in questi ultimi tempi. Cominciando col rettificare alcune sue inesattezze.
Primo. Io m’impegnai molto, al tempo della famosa Legge Merlin, con la quale andai anche a parlare e che mi fece, come persona, l’impressione di una donna animata dalle migliori intenzioni, ma assolutamente priva di esperienza di vita. Non contro di lei, ma contro l’imbambolamento demagogico-puritano, da cui sembrava che il Parlamento fosse stato colto, scrissi non degli articoli, ma addirittura un pamphlet - che più tardi fu incluso nel volume «I Libelli» - naturalmente oggi introvabile - intitolato «Addio, Wanda!», e che la stampa del buon costume presentò come finanziato dagl’impresari di bordello.
Invece rispondeva alla storia vera, non molto dissimile da quella della sua Rosa di Amsterdam, di una tenutaria che fu celebre a Bologna nei primi anni del secolo, e di cui ancora oggi si ricorda l’accoglienza che fece al nuovo parroco del quartiere che, venuto a benedire la casa ignorando da chi era abitata, quando lo capì anche dalla consistenza dell’obolo che Wanda gli aveva versato, ebbe un momento di esitazione che Wanda gli permise di superare con queste parole: «Ma no, Padre, lo accetti, lo accetti... In fondo noi due facciamo pressappoco lo stesso mestiere al servizio della gente. Che, quando le tira la coscienza, viene da lei. Quando le tira qualche altra cosa, viene da me».
Wanda, di cui io fui non solo cliente, ma anche amico, e lo rimasi anche quando la Merlin l’ebbe mandata in pensione, ebbe anche lei una figlia, che fu educata nel più rigoroso dei modi, e allo stesso modo educò i suoi due figli (uno dei quali viene ogni tanto a trovarmi) avuti da un marito ineccepibile. E veniamo al dunque. Sulla ventilata riapertura delle case chiuse, io non ho scritto nessun editoriale: il tema, in un giornale «storico» come questo, si addice poco alla compassatezza dell’articolo di apertura, il cosiddetto «fondo».
L’ho abbordato una e forse due volte in questa «stanza» per sostenere che, se pretendessimo di ripristinare la casa chiusa modello Wanda, faremmo un fiasco che, invece di migliorare, peggiorerebbe le cose. No, il modello da imitare è quello di Rosa, ma una Rosa senza vetrina né limitazione di quartiere, affidata all’imprenditoria privata, e sottoposta a un solo controllo, ma serio e severo: quello sanitario.
Ecco il progetto per il quale sono ancora disposto a battermi anche senza le «bustarelle» degl’impresari di bordello, e che le sottopongo, cara Claudia, non come «esperta», si capisce, ma come testimone, anzi - come oggi è più chic dire - come «testimonial» di un’esperienza che si svolge sotto i suoi occhi di austriaca olandesizzata; un’esperienza che corrisponde a quella maturatasi nel mio quasi secolo di vita, e che si potrebbe formulare così: «Se pulizia ha da essere, fidati solo di quella che viene dal peccato».
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grazia
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Re: Media e dintorni

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LA STANZA
di Indro Montanelli

Il vero veleno è la sfiducia nel domani


Caro Montanelli,
S ono uno studente e mi interessa la storia recente del nostro Paese. È appena ricorso il ventesimo anniversario del sisma in Irpinia e Basilicata. I servizi tv e giornalistici realizzati per l’occasione, pur ricchi di riferimenti storici, non hanno tuttavia soddisfatto alcune mie curiosità. Poiché sono convinto che lei possa aiutarmi, ecco le mie domande. Quali furono le vicende salienti della ricostruzione, quale spirito l’animò a livello politico-istituzionale? Cosa fu l’«Irpiniagate»? Cosa dovrebbero fare la Regione Campania e i suoi abitanti per chiudere definitivamente queste pagine dolorose e consegnarle a una memoria storica dignitosa senza più strascichi e veleni?

Simone Savoia, Napoli

Caro Simone,
A te forse sembrerà di avermi posto degl’interrogativi di facile risposta. Ma sono alcuni decenni che io stesso ci giro intorno, e ho persino subito un processo (e lo persi) per aver azzardato delle ipotesi che non piacquero a De Mita. Comunque, cercherò di rispondere alla tue tre domande anche a costo di deluderti.
A livello politico-istituzionale non ricordo che ci sia stato qualcosa di specifico se non il fatto che la sciagura offrì il destro al Presidente Pertini, gran brav’uomo, impermeabile alle tentazioni del denaro, ma non a quelle della popolarità, di sfoderare tutto il suo protagonismo adergendosi ad accusatore per le loro trascuranze di misure preventive non solo del governo, ma della Camera, di cui fino al giorno prima era stato egli stesso il Presidente.
Io ricordo che uno slancio di solidarietà ci fu in tutto il Paese, corretto soltanto dalla diffidenza sul modo in cui aiuti e sussidi sarebbero stati impiegati: e questo, fondato o infondato, è un elemento psicologico che tutti voi meridionali dovete sempre tenere presente ogni volta che si tratta di stanziamenti o di soccorsi al Sud. Con il mio Giornale per indurre i suoi lettori ad allargare la borsa (che fu allargata bene, di parecchi miliardi, i miliardi di allora), dovemmo impegnarci a tradurli noi stessi in mattoni e cemento ricostruendo, sotto la regia di Egisto Corradi, un piccolo paese interamente distrutto.
Questo pregiudizio, mi dirai, non è giusto, ed hai ragione. Nel Sud, che io credo di conoscere molto bene perché ci sono cresciuto da ragazzo, ci sono fior di galantuomini più che nel Nord. In questo senso: che mentre nel Nord un comportamento da galantuomo non richiede granché, nel Sud esige non coraggio, ma eroismo perché tutto congiura contro di esso.
Siete pronti voi giovani intellettuali meridionali (di cui certamente tu fai parte: lo sento non tanto da ciò che dici, ma da come lo dici) che volete risanare la vostra società, ad affrontare questa piaga ambientale perché se non partite da questa, non otterrete mai nulla?
Non te lo chiedo io. Fa’ conto che te lo chieda, tramite me, il vostro grande (e dimenticato, temo) Giustino Fortunato, che io ho avuto la gran ventura di conoscere nell’ultimo anno (quando io ne avevo ventidue) della sua vita; e che del Sud mi fece capire tutto. Conosci le sue pagine? Se non le conosci, cercale. Non sono di facile lettura. Come molti meridionali, Fortunato aveva il periodo rugginoso e raggelato da un autocontrollo implacabile e anche da una sorta di disperazione esistenziale - anche questa molto meridionale - dal cui contagio ti devi guardare. Scolpita nella memoria, mi è rimasta soprattutto una sua frase: «Ha visto i nostri calanchi, quei mari gialli senza una macchia di verde? Non ce li ha mandati il Signore; li abbiamo fatti noi che non piantiamo alberi perché non crediamo nel domani, e ci mandiamo a pascolare le capre che divorano tutto, erba e virgulti, quasi prima che nascano».
Lascia stare, caro Simone, i «veleni» delle istituzioni. Il veleno vero è questa sfiducia nel domani. Ve la sentite, tu e i tuoi simili, di affrontarla mettendovi contro i secoli di Storia che l’hanno sedimentata nel vostro sangue? Se mi rispondi di no - come forse a parti rovesciate, ti risponderei io - non ti disprezzo né ti compiango. Se mi rispondi sì, e tieni parola, ti ammiro e ti compiango ancora di più perché se pensate che qualcuno ve ne sarà grato, vi sbagliate di grosso.
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Re: Media e dintorni

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LA STANZA
di Montanelli

domenica, 21 Gennaio 2001


Benedico il cielo per averci dato Ciampi

Caro Montanelli,
Sono una diciannovenne e frequento l’ultimo anno del liceo scientifico «Cristoforo Colombo», a Genova. Sotto la taciturna guida del professore di materie letterarie, ogni tanto la classe discute un tema di attualità. Abbiamo parlato di Carlo Azeglio Ciampi ed è accaduto un fatto mai verificatosi: tutti eravamo d’accordo nel non sentirci rappresentati da questo Presidente. In quanto - abbiamo concluso - Ciampi gironzola, insonne, attraverso la Penisola, inaugurando, commemorando, benedicendo. E parla, pressoché quotidianamente, sostenendo concetti ovvi, privi di autentico significato, in maniera vaga o tautologica. Insomma, recita omelie come i vecchi curati di campagna. Egli rappresenta nel migliore dei modi un Paese dove la democrazia è sovente d’impronta convenzionale e declamatoria. E poiché i problemi non mancano (dalla diffusa povertà all’ordine pubblico) e, ad esempio, in primavera andremo a votare con una legge elettorale assurda che non consente a chi vince di governare senza ricorrere ad apparentamenti disomogenei, causa di perpetua litigiosità, al Presidente (se proprio non riesce a starsene zitto) non mancherebbero davvero le ragioni per intervenire con espressioni chiare.
Gradirei che esprimesse la sua opinione.
Serena Montebello

Cara Serena,
Penso che tu e i tuoi compagni di scuola vi siate rivolti a me perché non mi considerate un laudator delle autorità costituite, quale infatti non credo proprio di essere. Purtroppo, nel caso specifico, mi sento, con grande imbarazzo, costretto a diventarlo perché delle vostre critiche al presidente Ciampi non ce n’è una che regga.
L’unica su cui si può discutere è il presenzialismo. Effettivamente Ciampi non trascura occasione per ricordare agl’italiani che esiste un qualcosa che si chiama Italia o Nazione italiana: il che potrebbe anche apparire ripetitivo, se gl’italiani dimostrassero di ricordarsene senza bisogno di esservi sollecitati, il che avviene molto di rado. Che in altri Paesi come la Francia, l’Inghilterra, la Germania, i riferimenti alla Nazione e ai suoi retaggi siano solitamente più rari e più sobri, è vero. Ma perché? Perché quei valori sono nel sangue di quei popoli, che quindi hanno meno bisogno di promemoria. Da noi si sta discutendo sull’opportunità di sostituire all’insegnamento della lingua quello dei dialetti. Ve ne siete accorti?
Ma ancora più incongrui mi sembrano i compiti che voi vorreste attribuire al Capo dello Stato. In quale Costituzione avete letto che tocca a lui richiamare le forze politiche alla necessità di riformare la legge elettorale e di suggerire i criteri secondo cui dovrebbero farlo? Non certo nella Costituzione nostra, la quale sarà quel che è, cioè una collezione d’intenzioni non mantenute, di compromessi e di soluzioni rimaste a mezzo; ma finché c’è, va rispettata, e il compito di darne l’esempio è attribuito proprio al Capo dello Stato, che, se lo violasse, potrebbe essere convocato dall’Alta Corte di Giustizia.
Egli può lanciare messaggi alle Camere, ma non interferire nelle loro decisioni. Può indicare, genericamente, quali sono le aspettative del Paese, ma non può dire: «Dovete far questo o quest’altro».
Questo potere lo ha il Presidente degli Stati Uniti, che infatti sono e si chiamano «Repubblica presidenziale». Lì il Presidente va al potere come il rappresentante di uno dei due partiti che se lo contendono ed esecutore in prima persona del programma del partito.
Il Presidente italiano viene eletto dal Parlamento, a cui deve pertanto rispondere della sua condotta. Questo non gli vieta di esercitarne una di consiglio e d’indirizzo, ma in forma strettamente privata, come faceva Einaudi coi suoi rispettosissimi promemoria in calce alle Leggi che gli davano da firmare. Non escludo che lo faccia anche Ciampi. Ma non può esibirlo, perché la Costituzione non glielo consente.
Questo sistema non vi piace? Nemmeno a me, che a quello di Repubblica parlamentare, qual è il nostro, ne preferirei uno di Repubblica presidenziale, come quello americano. Ma solo in teoria. Perché quando penso a chi, qui in Italia, esso potrebbe cadere in mano, mi vengono i brividi e bened ico il Cielo per averci dato Ciampi.
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Re: Media e dintorni

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giaguaro ha scritto: 11 giu 2020, 14:00 Forse bisognerebbe cercare di capire come sia andata a finire questa storia d'amore di Montanelli e moglie.
Il fatto che sia stata venduta dalla propria famiglia e acquistata da Montanelli, o chi per lui, potrebbe essere ininfluente, se poi si è comportato come un marito normale, considerandola come moglie regolare sia quando era in Etiopia e sia quando è rientrato in Italia.
Ciò, in quanto il padre l'ha venduta secondo il modus operandi in uso nella cultura di quei paesi. Effettivamente la giovane età della bambina è condannabile. Ma questo è dovuto anche alla mentalità culturale di quei popoli.
Se però Montanelli, quando è rientrato in Italia, si è dimenticato dell'esistenza della consorte, soprattutto perché troppo giovane e infinitamente povera e di colore, allora si è macchiato di un peccato difficilmente perdonabile. Mi auguro che le cose non siano andate in questo modo; perché, altrimenti, il suo comportamento offusca la sua immagine più dell'effettiva rimozione della sua statua!
carissimo giaguaro devo dirti che pur avendo ammirato a suo tempo Montanelli soprattutto come scrittore
e giornalista , non ho mai conosciuto e letto il Montanelli come "uomo" ovvero la sua vita privata, anzi solo dopo aver letto
la notizia della richiesta di rimozione della sua statua sono venuta a conoscenza del motivo e per capire meglio ho letto
e appreso da wikipedia che ""prima del ritorno in Italia dall'Etiopia Montanelli addirittura cedette la ragazzina
al generale Alessandro Biroli che la introdusse nel proprio piccolo harem . In seguito la ragazzina sposò un militare
eritreo che era stato agli ordini di Montanelli nella guerra coloniale"". Anche secondo me come uomo non si puo dire
perdonabile oltretutto si dice che non sia mai rimproverato nel raccontare in tv e sul giornale la sua storia .
Che dire il "Maschio" ha avuto la meglio sull' ""Uomo" e in certi frangenti chissà quanti della stessa levatura si saranno
comportati così....
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grazia
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Re: Media e dintorni

Messaggio da leggere da grazia »

In Africa, Montanelli aveva accettato come compagna un’adolescente abissina. Ma se abbattere la statua di un dittatore può essere un gesto liberatorio; rimuovere la statua di un giornalista libero puzza di fanatismo
di Beppe Severgnini

Nessuno tolga Montanelli dai suoi Giardini

Giù le mani da Montanelli. Espellere la statua dai giardini milanesi che portano il suo nome - come chiedono gli ineffabili «Sentinelli» — non è soltanto sbagliato. Sarebbe assurdo, offensivo e controproducente.

Non lo scriviamo perché Indro Montanelli (1909-2001) è un vanto di Milano, la città che amava e per la quale ha versato — letteralmente — il sangue (l’attentato delle Brigate Rosse nel 1977, cui seguì il perdono degli attentatori). Non lo scriviamo perché Montanelli è una gloria del Corriere della Sera, dov’è tornato nel 1995, dopo aver fondato e diretto il Giornale per vent’anni. Non lo scriviamo perché Montanelli ha insegnato il mestiere a tanti di noi, e ci ha voluto bene.




Lo scriviamo perché l’uomo e il professionista non meritano un affronto del genere; e non lo meritano Milano, l’Italia e gli italiani, già provati da mesi drammatici. Abbattere la statua di un dittatore può essere un gesto liberatorio; rimuovere la statua di un giornalista libero puzza di fanatismo.

L’accusa risale al 1935. Per valutarla, occorre conoscere il contesto. Indro Montanelli — giovane fascista disincantato, speranzoso reporter — parte per il fronte africano. Ha appena compiuto ventisei anni. All’Asmara viene incorporato come comandante di compagnia nel XX Battaglione Eritreo, formato da ascari, mercenari locali. Una unità raccogliticcia e inefficiente, con compiti di retroguardia. Il sottotenente Montanelli scrive: «Abbiamo davanti un nemico che non fa che fuggire e una popolazione che non fa che applaudire. È una passeggiata, sia pure un po’ scomoda». L’avventura è raccontata in un libro, XX Battaglione Eritreo, che viene recensito in modo lusinghiero da Ugo Ojetti sul Corriere della Sera e apre a Montanelli le porte di via Solferino.

Appena arrivato in Africa, Montanelli aveva accettato di prendere come compagna un’adolescente abissina, secondo la tradizione locale. La ragazzina si chiamava Destà. «Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi ovunque mi trovassi, in quella terra senza strade né carte topografiche». Montanelli poi capì l’ingiustizia e l’anacronismo di quel legame; ma non negò, né rimosse, la vicenda. La giovanissima Destà andò poi in sposa a un attendente eritreo, e con lui fece tre figli: il primo lo chiamarono Indro.

Abbattere, per questo, la statua di Montanelli? Sarebbe assurdo e offensivo, come dicevamo. Quella vicenda — non esemplare, certo — non rappresenta l’uomo, il giornalista, le cose in cui ha creduto e per cui s’è battuto. Se un episodio isolato fosse sufficiente per squalificare una vita, non resterebbe in piedi una sola statua. Solo quelle dei santi, e neppure tutte.

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grazia
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Re: Media e dintorni

Messaggio da leggere da grazia »

Almeno cinque barattoli di vernice di colore rosso. Vernice utilizzata per cospargere la statua di Indro Montanelli e farla colare sulla testa, sul busto, sugli arti come sangue. E due bombolette di spray di colore nero. Spray utilizzato per scrivere alla base del monumento, nei giardini tra le vie Palestro e Manin intitolati proprio al giornalista e scrittore, due parole che, nei piani degli esecutori, sintetizzano e spiegano l’agguato: «Razzista stupratore».


Il vandalismo è avvenuto nel pomeriggio di ieri. Del caso si occupa la Digos. Un blitz che potrebbe avere avuto numerosi testimoni ed esser stato ripreso dalle telecamere. Ci sono sì impianti, nelle strade adiacenti il parco e all’interno della stessa area verde, ma è anche vero che esistono percorsi di avvicinamento e allontanamento verso la statua «scoperti». L’indagine potrebbe non essere fulminea. Come invece sembra essere stata l’azione. Quantomeno, un’azione studiata, preparata. C’erano più persone, e magari altri complici a far da palo lungo il perimetro dei giardini e in prossimità dei cancelli. A ieri sera, nessuno ha rivendicato il blitz, eseguito dopo intensi giorni di dibattito in seguito alla richiesta dei Sentinelli, che sostengono di battersi per i diritti, di rimuovere il monumento in relazione al passato colonialista di Montanelli, quando in Abissinia (era un giovane sottotenente) sposò e convisse con una minorenne.


Nei giorni scorsi i Sentinelli avevano scritto una lettera al sindaco Beppe Sala e al consiglio comunale tutto. Più che una lettera, era stato un appello. Ancor di più, un’esplicita richiesta da soddisfare nel breve volgere. Ovvero rimuovere la statua ed erigerne altre dedicate a personalità più «degne». E come una sequenza di voci contrarie s’era subito messa in moto, così le reazioni nell’apprendere il vandalismo sono state immediate. Fra i primi a intervenire, il governatore della Regione Lombardia, Attilio Fontana: «Proprio non ci siamo. L’odio, la cattiveria e l’astio sono sempre più dominanti sul confronto civile e democratico. C’è da preoccuparsi seriamente». Roberto Cenati guida l’associazione milanese dell’Anpi. E rimane fermo sulla posizione già espressa, un invito ad analizzare l’intera vita e la professione del giornalista: «Nessuno vuole difendere quel passato. Ma ricordo che il monumento a Montanelli è stato costruito a pochi passi da dove fu gambizzato dai brigatisti. Ha un significato particolare, questa statua. Quei terroristi avevano voluto colpire la libertà di stampa. Sono preoccupato per questa deriva iconoclasta che vuole emendare la storia». Non è la prima volta — e a registrare i fatti il timore è che non sia l’ultima — che il giornalista diventa un bersaglio. Scelto e colpito. Un simbolo eletto a rappresentazione del male e meritevole di essere cancellato nella sua memoria. Le mosse dei Sentinelli avevano seguito le «diramazioni» dell’assassinio negli Stati Uniti di George Floyd. Era stata per esempio abbattuta la statua di Edward Colston, un mercante di schiavi, e allo stesso tempo aveva subìto oltraggi il monumento a Winston Churchill. Attaccare ovunque, attaccare in ordine sparso. Qui in Italia, per appunto, ecco Indro Montanelli, inviato, scrittore, storico, narratore del mondo. Difficile che nessuno abbia visto il blitz: era sabato, e di sabato i giardini sono affollati. Sulla statua i vandali hanno dovuto arrampicarsi e sostare, per versare la vernice; dopodiché, plausibilmente, hanno dovuto scappare. Non sono passati inosservati.

Corriere della Sera
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grazia
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Re: Media e dintorni

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Indro Montanelli, pedofilo e razzista

La statua di Indro Montanelli imbrattata


E’ quanto sostengono alcuni gruppi antirazzisti e femministi, che a Milano vorrebbero rimuovere la statua del grande giornalista dai giardini pubblici a lui intitolati. E che vorrebbero, naturalmente, intitolare i giardini a qualcun altro. Più degno di lui.
La colpa di Montanelli? Arrivato all’Asmara nel 1935, reporter ventiseienne, viene nominato comandante di compagnia nel XX Battaglione Eritreo, formato a ascari, mercenari locali. Era tradizione che gli italiani trasferiti laggiù, a migliaia di chilometri da casa, si prendessero come compagna una donna africana. Al giovane Indro venne proposta una minorenne locale, e lui non si sottrasse.
Si vollero bene. Ma per fortuna Montanelli capì che quel legame era sbagliato. Quando la relazione terminò, la ragazza sposò un attendente eritreo. Con lui fece tre figli, il primo lo chiamarono Indro.

Eccola qui, la grande colpa del grande scrittore. Ecco perché era razzista: perché si era messo insieme ad una ragazza di colore (dovrebbe semmai essere il contrario: un bianco che va con una nera dimostra che il colore della pelle non conta). Ed ecco perché era pedofilo: perché lei non era ancora maggiorenne.
Che dire, allora, di Maometto, che ebbe la bellezza di 13 mogli, tra cui una schiava copta (pure schiavista, oltre a razzista!), e addirittura 16 concubine? La sua moglie più importante, Aisha, venne sposata formalmente quando aveva 6 anni. E il rapporto venne consumato quando ne aveva 9.
Oggi ci scandalizziamo per certe cose. Aggiungo: per fortuna. Un maggiorenne che fa sesso con una minorenne finisce in gattabuia; se la ragazzina è una bambina, buttano via la chiave. Ed è giusto che sia così. Oggi. Ma allora le tradizioni, la cultura, la mentalità erano completamente diverse. Si viveva meno, si moriva prima e si doveva prolificare prima. A 13 anni Gandhi sposò una tredicenne ed ebbero cinque figli. Sbagliato, sbagliatissimo. Come i matrimoni combinati. Ma allora era la regola. E se provavi a ribellarti venivi condannato, come eretico e nemico dei valori familiari.

Ci sono istanze giuste, giustissime. Che però, portate all’estremo, diventano ridicole. Da quando, negli Usa e in tutto il mondo, il movimento Black lives matter ha ripreso vigore dopo la tragica uccisione di George Floyd, la piaga del razzismo è tornata all’ordine del giorno. Era ora, visto anche che Trump si è permesso di mettere sullo stesso piano i suprematisti bianchi e gli antirazzisti. Dopo i disordini di Charlotteville nell’agosto 2017, in cui una giovane antifascista venne uccisa da un estremista di destra, il Presidente disse qualcosa che fa ancora accapponare la pelle: “There were very fine people on both sides”, “C’erano ottime persone da entrambe le parti”. Come dire che anche gli scagnozzi del Ku Klux Klan sono ottime persone.

Ben venga il rigurgito antirazzista. Ma evitando che, oltre al razzismo, prenda di mira anche il buon senso. E’ ridicolo abbattere le statue di Cristoforo Colombo, colpevole di avere scoperto il Nuovo Mondo, e quindi di avere dato il via al genocidio degli indiani. Così come è ridicolo voler tirare giù i monumenti a Winston Churchill, l’eroe della lotta a Hitler, perché credeva che i bianchi fossero più intelligenti dei neri e degli orientali. Idiozie, che però nell’epoca dell’imperialismo europeo andavano per la maggiore. E c’è chi, in nome dell’antirazzismo, vorrebbe mettere al bando Shakespeare. Perché antisemita nel Mercante di Venezia.

Leonardo da Vinci, animalista e vegano ante litteram, scrisse: “Fin dalla più tenera età, ho rifiutato di mangiare carne. E verrà il giorno in cui gli uomini guarderanno all’uccisione degli animali così come oggi si guarda all’uccisione degli uomini”. Se il tempo dimostrerà che aveva ragione, tra uno o due secoli, chissà, i posteri inorridiranno al pensiero che ancora nel ventunesimo secolo si mangiavano gli animali. Guardando i video-choc degli allevamenti intensivi, in cui mucche, maiali e pulcini sono (mal)trattati come oggetti, resteranno a bocca aperta. E abbatteranno le statue di tutti quanti, prima di loro, non sono stati vegetariani: razzisti, anzi specisti, perché teorizzavano la superiorità di una specie sull’altra. E perché giustificavano, in questo modo, le peggiori violenze su creature inermi.

Quando, nel lontano 1983, sostenni l’esame di Maturità, scelsi il tema dal titolo “Cosa significa essere figli del proprio tempo”. Spiegai che vuol dire ritrovarsi nelle idee e nelle usanze, giuste o sbagliate, della propria epoca e del luogo in cui si abita. Ci vuole coraggio a non essere figli del proprio tempo: si finisce incompresi. O emarginati. O incarcerati. O uccisi. La cultura cambia, la morale cambia, e ciò che allora era giusto oggi è sbagliato. E viceversa.
L’antirazzismo è un dovere morale. Il politically correct è, invece, moralismo. Ossia il tentativo di impancarsi ad eticamente superiori. E’ facile, e gratificante: io mi sento moralmente superiore a te, perché tu hai fatto questo e quest’altro di sbagliato. Visto che siamo uomini, quindi peccatori, trovare qualcosa di sbagliato in qualcuno è facilissimo. E di questo passo dovremmo abbattere tutte le statue, e cambiare in nome a tutte le strade. Non si salverebbero nemmeno i santi: anche loro avevano difetti.

Come disse Andreotti, uno che di peccati se ne intendeva, “ distinguerei le persone morali dai moralisti. Perché molti di coloro che parlano di etica, a forza di discuterne, non hanno poi il tempo di praticarla.”

MARIO FURLAN il Giornale
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grazia
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Re: Media e dintorni

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Sgarbi espulso alla Camera e portato via di peso

Sgarbi portato via di peso
Sgarbi è stato portato via letteralmente di peso fuori dall'Aula della Camera dopo che, espulso dalla vicepresidente Carfagna, si ostinava a non uscire dall'Emiciclo e, anzi, si produceva in improperi nei confronti di lei e della deputata di Fi Giusi Bartolozzi, come «Vaffanculo», «stronza», «troia» ed altre parole incomprensibili dalle tribune. Carfagna lo ha più volte invitato a uscire. Sgarbi si è invece seduto negli scranni di Fratelli d'Italia prima e poi della Lega. A quel punto quattro commessi lo hanno sollevato di peso, due per le gambe e due per le braccia, e lo hanno portato fuori.

Meno male. Era ora !
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Re: Media e dintorni

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STUDENTE REPORTER
Le parolacce e i giovani: di chi è la colpa?
di leopaz (Medie Superiori) scritto il 10.11.15


Come ben sappiamo, i giovani di oggi sono facilmente influenzabili, primo strumento che effettua questa azione su di essi è rappresentato dai media: TV, radio, forum ecc. Sempre più spesso, ai giorni nostri, viene utilizzato un linguaggio scurrile: è diventata ormai un abitudine quotidiana di cui non si riesce più fare a meno. Ma la causa di tale problema va ricercata alla fonte, cioè agli educatori delle nuove generazioni, i quali possono essere i genitori o i media che, evidentemente, impartiscono inconsapevolmente un'educazione sbagliata. Nella società odierna è divenuto normale ascoltare o dire "parolacce" perchè vi è l'errata concezione che, per integrarsi o anche per sentirsi o apparire come persone degne di attenzione, si debba ricorrere all'uso di determinati termini che talvolta potrebbero risultare fastidiosi per alcuni che non ritengono necessario avere un particolare "slang". Questi ultimi sono i veri esempi da seguire in quanto dotati di una propria personalità. Quindi si può asserire che le "parolacce" non sono proibite anzi sono anche tollerate in un momento di collera o in altri contesti del genere, però non si devono considerare termini che fanno parte della nostra lingua e dato che è doveroso comprendere che il linguaggio periferico non è un motivo di cui essere fieri ma il segno di un'evidente debolezza. Concludo dicendo che l'utilizzo di determinate espressioni non è assolutamente essenziale nella quotidianità di ognuno poichè la comunicazione è un'arte molto importante all'interno della società globale in quanto senza quest'ultima si è in una situazione di grande fragilità paragonabile a quella di una pecora in mezzo ai lupi.
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Re: Media e dintorni

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""''Chi ‘parla come mangia’ spesso viene avvertito come genuino, naturale, senza costruzioni – – per questo arriva in modo diverso all'attenzione dell’ascoltatore. In parte è legato al fatto che l’irriverenza comunicativa prende sempre in contropiede e ‘buca’ la nostra attenzione, in parte è anche vero che si rivolge alla nostra parte più grezza""

Luca Mazzucchelli
vicepresidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia
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