Passa al contenuto

  • FORUM POLITICO
  • Forum di discussione sulla Politica ...e non solo!
  • Bentornato Ospite!
  • Oggi è 26/04/2018, 5:20
  • Indice ‹ OFF-TOPIC ‹ Istruzione, cultura, letteratura, poesia
  • Modifica dimensione carattere
  • Stampa pagina

Media e dintorni

Questo spazio ospiterà tutto ciò che riguarda il mondo della scuola, la cultura in genere, la letteratura, la poesia.
Rispondi al messaggio
202 messaggi • Pagina 12 di 14 • 1 ... 9, 10, 11, 12, 13, 14

Re: Media e dintorni

Messaggioda grazia » 06/01/2018, 2:09

DEMOCRAZIA E DITTATURA
Gaetano Salvemini

[…] “Di fronte a problemi tecnici che richiedono l’opera di esperti, il politico, che sia un dittatore o un leader democratico, è come colui che cerca un dottore per un amico malato.
Il malato soffre di mal di testa. Fosse pure l’uomo più ignorante al mondo, egli solo è competente a dire se si sente bene o male, e se il dolore di cui soffre è alla testa, allo stomaco o al fegato. Ma non è competente a diagnosticare la sua malattia, né a prescrivere il rimedio per essa. Può pensare che la sua malattia sia nella testa, mentre in realtà è affetto allo stomaco o al fegato. L’amico del malato non è più competente di lui a risolvere i problemi tecnici della diagnosi e della prescrizione. Cerca un esperto – il medico – e gli chiede di risolvere quei problemi tecnici. Colui che sceglie un medico non è in grado di giudicare in anticipo se il medico sia bravo o meno. Se potesse giudicare dell’abilità tecnica del medico sarebbe egli stesso un medico e non avrebbe bisogno di andare in giro a cercare un altro esperto.
Una volta scelto il medico, il paziente guarisce, perché doveva guarire, o muore, perché doveva morire. Se il paziente si rimette, tanto lui che il suo amico concludono che il dottore era un bravo esperto. Se il paziente muore, la colpa è del dottore. Se la malattia si prolunga troppo, il paziente e il suo amico passano da un esperto all’altro, finché il paziente guarisce o muore. Se non cambiaste dottore, il vostro dottore diventerebbe il vostro dittatore e voi non sareste più suoi pazienti, ma suoi sudditi.
Nelle questioni politiche il popolo, la folla, il volgo sono il paziente. Il loro compito, in un governo democratico, non è quello di risolvere i problemi tecnici. E’ semplicemente quello di dire se si sentono bene o si sentono male, e lo dicono tramite la stampa, le associazioni, o il giorno delle elezioni. Se il popolo si sente bene, attribuisce il merito della sua prosperità al partito al potere, e il giorno delle elezioni rielegge i politici del partito al potere. Se non si sente bene, vota per i politici dell’opposizione. I politici eletti in questo modo non sono esperti. Essi sono gli amici della persona malata i quali procurano i dottori che la cureranno. Scelgono gli esperti ai quali è affidata la soluzione dei problemi tecnici. Li cambiano se la soluzione tarda troppo ad arrivare o se le condizioni peggiorano anziché migliorare.
In un governo democratico voi potete costringere i vostri rappresentanti a cambiare il vostro medico. Sotto una dittatura siete schiavi degli esperti scelti dal dittatore fino a quando essi godono della fiducia del dittatore, dei suoi consiglieri personali o della sua amante. Non avete alcun canale a disposizione per far sapere se il dittatore e i suoi esperti hanno guarito o aggravato i disturbi di cui soffrite. Ma il dittatore e i suoi giornali sono lì per annunciare al mondo intero che siete in piena forma, che siete gli esseri più felici dai tempi del giardino dell’Eden. E in tutto questo si troverà sempre un numero sufficiente di giornalisti prezzolati, di colonnelli in pensione, di femmine mezzo innamorate e di ragazzini immaturi pronti a credere che tutti stanno bene grazie ai poteri magnetici del dittatore.
Gli esperti sono necessari in tutti i tipi di governo. L’unica cosa che è dato sapere, sia in una democrazia, sia in una dittatura, è che i danni prodotti dagli errori, dalla disonestà, dalla ostinazione di esperti senza scrupoli saranno pagati dal popolo.
La differenza tra dittatura e democrazia è che in democrazia il leader deve rendere conto ai rappresentanti dei cittadini dei risultati del lavoro dei suoi consiglieri, mentre i consiglieri del dittatore devono rendere conto solo a lui. Non potete mettere in discussione il loro lavoro, perché ciò getterebbe dei dubbi sulla saggezza del dittatore che li ha scelti. Non conoscete neppure i loro nomi. I consiglieri del dittatore formano una combriccola segreta di padroni irresponsabili che brigano dietro le quinte, mentre il dittatore domina la ribalta minacciando di mandare ogni oppositore davanti al plotone d’esecuzione”.
"Maschi si nasce, Uomini si diventa"
Avatar utente
grazia
politico
 
Messaggi: 2073
Iscritto il: 14/01/2014, 13:50
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda grazia » 10/01/2018, 12:49

PROMETTETE DA CASA: IN TIVÙ PERDETE VOTI

– di Antonio Padellaro


Caro diario, domenica sera, Non è l’Arena di Massimo Giletti ci ha raccontato di come sia possibile che in Italia il barbiere di Montecitorio guadagni quanto il capo dello Stato o giù di lì. E di come i deputati dell’Assemblea regionale siciliana prendano un mucchio di quattrini per affacciarsi ogni tanto in aula (magari per aumentarsi gli emolumenti). È stato allora che ho deciso di votare per i 5Stelle, gli unici che si battono contro la casta dei vitalizi e dei parassiti. Caro Diario, lunedì sera a Presa Diretta, Riccardo Iacona, con bici e caschetto regolamentare, ci ha raccontato di come sia possibile che nella Roma della sindaca Raggi le piste ciclabili siano scarse, non collegate, sparse casualmente qua e là, spesso impraticabili e invase dai rifiuti (il nuovo skyline della Capitale), tanto che soltanto l’1% dei cittadini dell’Urbe fa uso delle due ruote per gli spostamenti. È stato allora che ho deciso di ritirare il mio voto ai Cinque Stelle. Ammetto di essere un elettore volubile e di non avere le idee molto chiare, ma penso che la rappresentazione della realtà che ci circonda è più forte e convincente di qualsiasi comizio televisivo.
MI CHIEDO PERCIÒ che senso abbia tutto quel trafficare della Vigilanza radiotelevisiva per garantire agli “artisti non giornalisti” Fabio Fazio e Bruno Vespa il diritto di ospitare i politici fino al voto. Quando ormai è accertato che apparendo in luoghi come Che tempo che fa o Porta a Porta i voti non si guadagnano ma si perdono. Prendiamo Paolo Gentiloni, la cui assenza dagli schermi televisivi aveva contribuito alla costruzione di un mito. Di lui si narrava che appartato dal mondo fosse un anacoreta dedito alla contemplazione, alla penitenza, alla preghiera e si cibasse di bacche. Un santo, un apostolo. Però è bastato che Fazio lo sottoponesse al suo implacabile trattamento e Gentiloni è tornato tra noi, come un Alfano qualsiasi. Sì, caro diario, la campagna elettorale sono le nostre pene quotidiane: essa è fatta della stessa sostanza dei problemi irrisolti con cui ci scontriamo ogni giorno. Così per forza il nostro convincimento si nutre di risentimenti e rafforza ogni giorno di più lo snaturamento del voto espresso non “a favore” di qualcosa, che non saprem- mo dire cosa, ma “contro” qualcuno che soprattutto ci sta sulle scatole. Tutto il resto è banale intrattenimento.
CI PIACE PER ESEMPIO osservare i nostri cari leader che si umiliano promettendoci questo e quell’altro come venditori di pacchi nelle fiere paesane. Scrutarli. Nell’intervallo tra un Salvini e un Di Maio c’interroghiamo sul mistero Vittorio Sgarbi. Corteggiatissimo dai talk show speranzosi che con una delle sue sclerate omeriche sistemi l’ascolto. Prestazioni a cui, generoso d’animo, egli volentieri si presta salvo poi essere ipocritamente redarguito. L’altra sera in studio da Giletti aveva il ghigno di un dobermann pronto per qualche giugulare. Infatti era tutto un ammansirlo con espressioni carezzevoli: “Come giustamente ha detto Vittorio”. Ci sarà da divertirsi.
Ps. Ho visto a Otto e mezzoMatteo Renzi. Ho deciso, voterò per Paolo Mieli.
"Maschi si nasce, Uomini si diventa"
Avatar utente
grazia
politico
 
Messaggi: 2073
Iscritto il: 14/01/2014, 13:50
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda gasiot » 11/01/2018, 6:28

ma quel padellaro li ....è quello che ha fatto carriera proprio per aver parlato male in generale di tutti quelli che fan politica ?
ovvio che poi supporti un altro giornalista suo simile
potere ai giornalisti..
li voglio al governo....
facciano un partito...
anche un non partito va bene....
Un intellettuale è un individuo che dice una cosa semplice in modo difficile; un artista è un individuo che dice una cosa difficile in modo semplice.
Avatar utente
gasiot
politico
 
Messaggi: 1635
Iscritto il: 17/10/2009, 22:46
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda grazia » 11/01/2018, 11:57

Partiti e soldi pubblici, promesse senza futuro
di Antonio Polito

I partiti hanno sempre giocato con i soldi dei contribuenti. In che cosa consiste dunque l’evidente «clima iperbolico» di questa campagna elettorale, per usare l’ottima definizione che ne ha dato Dario Di Vico sul «Corriere»? La vera novità sta nel fatto che stavolta ci si propone di spendere solo per «togliere» e mai per «mettere»; sempre per disfare e mai per fare. I denari pubblici non sono cioè oggetto di una promessa di cambiamento, di un progetto di società, di un’idea di sviluppo; ma vengono puntati su una specie di Mercante in Fiera in cui ogni partito propone a una categoria un voto di scambio: metti una croce qui e io ti faccio risparmiare un centinaio di euro.
Facciamo qualche esempio. Il centrodestra di Berlusconi si è sempre presentato come il portatore di un’idea di sviluppo libera da lacci e lacciuoli, capace di scatenare gli «animal spirits» del capitalismo nostrano. Prometteva dunque sì grandi impegni di spesa, ma per progetti di crescita e di modernizzazione del Paese. La proposta di costruire il Ponte sullo Stretto ne fu un po’ il simbolo. Così come la legge sulle grandi infrastrutture. L’uso del denaro pubblico, per quanto poi rimasto sulla carta, era comunque finalizzato a un effetto leva, a mobilitare capitali privati, a promuovere sviluppo tecnologico e ricerca, a produrre lavoro e occupazione. Se ne avesse avuto la forza, l’Italia ne sarebbe uscita migliore, più moderna e più ricca. Di progetti con queste ambizioni non si sente più parlare dalle parti di Berlusconi. Si può anzi star certi che la flat tax, se realizzata, annullerebbe completamente le già scarsissime risorse disponibili per investimenti, senza contare gli effetti che produrrebbe sulla spesa corrente, che andrebbe tagliata e di molto.
Prendiamo invece l’idea alternativa di sviluppo da sempre proposta a sinistra: puntiamo sull’economia della conoscenza, sulle infrastrutture immateriali invece che su ponti e cemento. Un ritornello storico era l’obiettivo di spesa del 3% di Pil in ricerca (al «Sapere» era dedicato un intero capitolo del programma elettorale del 2013). Adesso invece, all’improvviso, la sinistra di Bersani e D’Alema propone l’abolizione delle tasse universitarie, togliendo così al già sfiatato sistema dell’istruzione terziaria la bellezza di due miliardi di euro l’anno: numero chiuso per tutti? Lo stesso vale per la Rai, il gioiello della corona del Pd fin dai tempi di Veltroni, pomposamente definita «la più grande industria culturale del Paese», alla quale andavano destinate ingenti risorse per evitare che l’offerta televisiva pubblica si omologasse a quella commerciale, abbassando gli standard di qualità e pluralismo. Doveva essere tutta fuffa per tenere in piedi il carrozzone Rai, se il nuovo Pd fa invece sapere, per bocca di Orfini, di essere «storicamente per l’abolizione del canone», un miliardo e ottocento milioni l’anno in meno per l’azienda. Il tutto avrebbe senso se si accompagnasse alla vendita a privati delle tre reti, ma il partito di governo non sembra affatto intenzionato a rinunciare alla nomina dei vertici e al controllo sull’azienda.
E come si concilierebbe l’abolizione del bollo auto proposto da Berlusconi con i progetti di città ecologiche, smart, sostenibili, non inquinate, che tutto il resto d’Europa persegue? Si tratterebbe di un incentivo al contrario, a restare nel passato dello smog e delle polveri sottili. Ecco, in termini ideali la caratteristica vera di questa campagna elettorale è proprio quella di non occuparsi del futuro. Chi dice di averlo a cuore, come i Cinquestelle, prepara il peggiore ritorno al passato: invece di creare lavoro, creare stipendi pagati dal contribuente (Di Maio si è spinto fino a 1950 mensili per ogni nucleo familiare con due figli oltre i 14 anni, il che renderebbe più conveniente non lavorare che lavorare: i manuali la chiamano la «trappola della povertà»). Bisogna infatti tenere a mente che tutte queste promesse vengono fatte a carico della fiscalità generale, dunque sono fonte di potenziali grandi ingiustizie. Perché alla fine qualcuno pagherà di più: il genitore che non può mandare i figli all’università pagherà le tasse anche per chi ce li manda; chi lavora pagherà il salario a chi non lavora; e chi non ha la televisione contribuirà a pagare il canone di chi ne ha tre.
Tutto ciò è sconcertante. Appare come il tentato suicidio della Seconda Repubblica. Proprio nell’anno in cui una ripresa sostenuta del prodotto interno e dell’occupazione avrebbero consentito alle forze anti-populiste di riaprire un discorso serio sul futuro dell’Italia, eccole rincorrere nel più goffo dei modi gli avversari populisti, che pure sembravano in difficoltà, al punto da rinunciare a slogan come l’uscita dall’euro. La favola di un «populismo buono» che batte quello «cattivo» cavalcandolo è un’illusione, e la débâcle del referendum costituzionale dovrebbe averlo insegnato anche alle teste più dure. E del resto la «strana» popolarità di Gentiloni, certamente non spiegabile con il fascino del leader, si può interpretare solo così: sembra l’unico ad aver capito che dopo tanti anni di crisi l’Italia chiede di ripartire, che ha di nuovo grandi ambizioni, e che i sogni degli italiani non si limitano più a un bonus di qualche decina di euro.
"Maschi si nasce, Uomini si diventa"
Avatar utente
grazia
politico
 
Messaggi: 2073
Iscritto il: 14/01/2014, 13:50
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda grazia » 18/01/2018, 17:20

E’nella Costituzione il primo no alla flat tax

–di Enrico De Mita


Il dibattito che c’è stato, su questo giornale, sull’opportunità di introdurre in Italia la flat tax ha avuto una grave carenza: non ha tenuto conto adeguatamente dei principi costituzionali contenuti negli articoli 2 e 53 della Costituzione. C’è di più. Si è liquidato questi principi come una specie di fisima che affliggerebbe la mente di alcuni italiani.
La crisi politica italiana è caratterizzata dalla sottovalutazione dei principi costituzionali come è dimostrato dalla vicenda del referendum costituzionale per fortuna sconfitto dagli italiani. La politica italiana è caratterizzata dall’assenza di orientamenti in nome di una presunta priorità del profilo tecnico delle vicende.
Si affrontano i problemi senza prospettive strategiche e senza inquadramenti organici. Così è avvenuto per la flat tax. Siamo d’accordo tutti sulla crisi del fisco.

Ora, il dovere fiscale è compreso (secondo dottrina e giurisprudenza costituzionale) fra i doveri costituzionali: l’adempimento dei doveri inderogabili è stata definita (Mortati) come una norma chiave in quanto con essa si è voluto affermare che «non l’uomo in funzione dello Stato ma quest’ultimo in funzione dell’uomo». Tale principio è ignorato dal governo e dalle tesi dell’opposizione. È praticamente svuotato da alcune tassazioni sostitutive, che vanificano la tassazione progressiva, il quadro legislativo improvvisato e fatto a vista d’occhio. Il governo è assente. L’aspetto più grave della crisi sta nel disorientamento del governo, nell’assenza di un’amministrazione preparata, dagli sconfinamenti dell’agenzia delle entrate che praticamente fa tutto: l’agenzia è diventata il vero e unico dominus del fisco. La proposta della flat tax non ha altra giustificazione al di fuori della critica del sistema fiscale sulla quale siamo tutti d’accordo. La bontà della sua proposta starebbe nel suo profilo tecnico non nelle premesse politiche e costituzionali. Non si risolverebbe il problema delle crisi anzi l’aggraverebbe. Sicchè c’è da chiedersi perche sia stata fatta. Mi spiace dirlo ma la proposta della flat tax persegue un obbiettivo politico attraverso la discutibile strada tecnica.
L’obbiettivo sembra non la giustizia fiscale ma vuole essere l’eliminazione dello stato sociale voluto dall’art.2 della Costituzione. Difatti la proposta non tiene conto della sua pratica inesistenza se non in quei Paesi come il Caucaso dove, come ci ricorda acutamente Giulio Tremonti, la gente va in ospedale portandosi dietro coperte e medicinali. Si tratterebbe di un passo indietro rispetto ai Paesi europei dove progressività è codificato in Italia e in Spagna e accolto negli altri Paesi europei come specificazione della parità di trattamento in senso sostanziale come parità di sacrificio. Secondo l’art. 2 della Costituzione «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Il dovere di concorrere alle spese pubbliche (secondo dottrina e giurisprudenza costituzionale) è un dovere di solidarietà politica economica e sociale che richiede il criterio della progressività. Dai sociologi ci viene fatto rilevare che l’attuale momento politico è caratterizzato da un forte individualismo (cui si ispira la flat tax) sicchè sembra lontana quella “nuova stagione dei doveri” senza la quale, diceva Aldo Moro, questo Paese non si salverà. Difatti la solidarietà di cui parla l’art. 2 della Costituzione è proprio quella unità morale e politica del Paese senza la quale è difficile che una democrazia possa sopravvivere. Si afferma un nuovo modo di intendere la libertà dei singoli: le situazioni derivanti dai diritti di libertà trovano una naturale limitazione nei doveri pubblici ad essi collegati. Il concorso alle spese pubbliche deve essere commisurato alla capacità contributiva. L’utilizzazione dell’imposta a fini economici e sociali redistributivi in particolare realizza il principio della capacità contributiva.
L’art. 53 sembra dare una precisa indicazione programmatica quando al secondo comma prescrive «che il sistema tributario è improntato a criteri di progressività» ed è evidente che un tale sistema, non potendo tutte le imposte essere progressive in quanto la progressività tecnicamente si addice solo ad alcune di esse, dovrebbe fondarsi principalmente su quelle imposte che per loro natura si prestano ad un meccanismo di aliquote progressive. La Costituzione, diceva Vanoni, deve qualificare la potestà tributaria più in senso politico che rigorosamente tecnico e giuridico. La posta in gioco, pertanto, è elevatissima. Se il quadro costituzionale e la politica sono quelli descritti, toccare l’art. 2 della Costituzione vuol dire mettere in discussione lo Stato democratico.
Non si può pensare ad una flat tax con la situazione che ci ritroviamo. L’inadeguatezza della proposta è dimostrata dalla valutazione delle aliquote che l’imposta dovrebbe avere (35% - 40% ) se volesse mantenere i conti in ordine; due aliquote fortemente punitive per i piccoli reddituari. La proposta pertanto è inutile, fatta solo ad ostentationem!A meno che i proponenti perseguano un obbiettivo molto più modesto: concorrere alla campagna elettorale per orientare l’elettorato in una certa direzione. E si capisce di quale elettorato si tratta; allora servirebbe ancor di più a complicare le cose politiche in Italia. Resta il problema della attuale tassazione progressiva e dell’intero sistema fiscale, soprattutto per quanto concerne la. Ma questo è un altro discorso e siamo d’accordo con le critiche di Nicola Rossi.
"Maschi si nasce, Uomini si diventa"
Avatar utente
grazia
politico
 
Messaggi: 2073
Iscritto il: 14/01/2014, 13:50
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda Giurista89 » 18/01/2018, 23:54

grazia ha scritto:E’nella Costituzione il primo no alla flat tax

–di Enrico De Mita


Il dibattito che c’è stato, su questo giornale, sull’opportunità di introdurre in Italia la flat tax ha avuto una grave carenza: non ha tenuto conto adeguatamente dei principi costituzionali contenuti negli articoli 2 e 53 della Costituzione. C’è di più. Si è liquidato questi principi come una specie di fisima che affliggerebbe la mente di alcuni italiani.
La crisi politica italiana è caratterizzata dalla sottovalutazione dei principi costituzionali come è dimostrato dalla vicenda del referendum costituzionale per fortuna sconfitto dagli italiani. La politica italiana è caratterizzata dall’assenza di orientamenti in nome di una presunta priorità del profilo tecnico delle vicende.
Si affrontano i problemi senza prospettive strategiche e senza inquadramenti organici. Così è avvenuto per la flat tax. Siamo d’accordo tutti sulla crisi del fisco.

Ora, il dovere fiscale è compreso (secondo dottrina e giurisprudenza costituzionale) fra i doveri costituzionali: l’adempimento dei doveri inderogabili è stata definita (Mortati) come una norma chiave in quanto con essa si è voluto affermare che «non l’uomo in funzione dello Stato ma quest’ultimo in funzione dell’uomo». Tale principio è ignorato dal governo e dalle tesi dell’opposizione. È praticamente svuotato da alcune tassazioni sostitutive, che vanificano la tassazione progressiva, il quadro legislativo improvvisato e fatto a vista d’occhio. Il governo è assente. L’aspetto più grave della crisi sta nel disorientamento del governo, nell’assenza di un’amministrazione preparata, dagli sconfinamenti dell’agenzia delle entrate che praticamente fa tutto: l’agenzia è diventata il vero e unico dominus del fisco. La proposta della flat tax non ha altra giustificazione al di fuori della critica del sistema fiscale sulla quale siamo tutti d’accordo. La bontà della sua proposta starebbe nel suo profilo tecnico non nelle premesse politiche e costituzionali. Non si risolverebbe il problema delle crisi anzi l’aggraverebbe. Sicchè c’è da chiedersi perche sia stata fatta. Mi spiace dirlo ma la proposta della flat tax persegue un obbiettivo politico attraverso la discutibile strada tecnica.
L’obbiettivo sembra non la giustizia fiscale ma vuole essere l’eliminazione dello stato sociale voluto dall’art.2 della Costituzione. Difatti la proposta non tiene conto della sua pratica inesistenza se non in quei Paesi come il Caucaso dove, come ci ricorda acutamente Giulio Tremonti, la gente va in ospedale portandosi dietro coperte e medicinali. Si tratterebbe di un passo indietro rispetto ai Paesi europei dove progressività è codificato in Italia e in Spagna e accolto negli altri Paesi europei come specificazione della parità di trattamento in senso sostanziale come parità di sacrificio. Secondo l’art. 2 della Costituzione «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Il dovere di concorrere alle spese pubbliche (secondo dottrina e giurisprudenza costituzionale) è un dovere di solidarietà politica economica e sociale che richiede il criterio della progressività. Dai sociologi ci viene fatto rilevare che l’attuale momento politico è caratterizzato da un forte individualismo (cui si ispira la flat tax) sicchè sembra lontana quella “nuova stagione dei doveri” senza la quale, diceva Aldo Moro, questo Paese non si salverà. Difatti la solidarietà di cui parla l’art. 2 della Costituzione è proprio quella unità morale e politica del Paese senza la quale è difficile che una democrazia possa sopravvivere. Si afferma un nuovo modo di intendere la libertà dei singoli: le situazioni derivanti dai diritti di libertà trovano una naturale limitazione nei doveri pubblici ad essi collegati. Il concorso alle spese pubbliche deve essere commisurato alla capacità contributiva. L’utilizzazione dell’imposta a fini economici e sociali redistributivi in particolare realizza il principio della capacità contributiva.
L’art. 53 sembra dare una precisa indicazione programmatica quando al secondo comma prescrive «che il sistema tributario è improntato a criteri di progressività» ed è evidente che un tale sistema, non potendo tutte le imposte essere progressive in quanto la progressività tecnicamente si addice solo ad alcune di esse, dovrebbe fondarsi principalmente su quelle imposte che per loro natura si prestano ad un meccanismo di aliquote progressive. La Costituzione, diceva Vanoni, deve qualificare la potestà tributaria più in senso politico che rigorosamente tecnico e giuridico. La posta in gioco, pertanto, è elevatissima. Se il quadro costituzionale e la politica sono quelli descritti, toccare l’art. 2 della Costituzione vuol dire mettere in discussione lo Stato democratico.
Non si può pensare ad una flat tax con la situazione che ci ritroviamo. L’inadeguatezza della proposta è dimostrata dalla valutazione delle aliquote che l’imposta dovrebbe avere (35% - 40% ) se volesse mantenere i conti in ordine; due aliquote fortemente punitive per i piccoli reddituari. La proposta pertanto è inutile, fatta solo ad ostentationem!A meno che i proponenti perseguano un obbiettivo molto più modesto: concorrere alla campagna elettorale per orientare l’elettorato in una certa direzione. E si capisce di quale elettorato si tratta; allora servirebbe ancor di più a complicare le cose politiche in Italia. Resta il problema della attuale tassazione progressiva e dell’intero sistema fiscale, soprattutto per quanto concerne la. Ma questo è un altro discorso e siamo d’accordo con le critiche di Nicola Rossi.

Ci sarebbe anche da considerare l'articolo 3 comma 2 Cost. Li probabilmente la flax tax potrebbe trovare giusta dimensione.
Argomento interessante. mipiace
Non condivido la tua idea, ma darei la vita perche' tu la possa esprimere.
Voltaire
Avatar utente
Giurista89
Moderatore globale
 
Messaggi: 1502
Iscritto il: 24/09/2016, 11:00
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda grazia » 21/01/2018, 2:17

Diritti non Elemosine

Salvatore Natoli



Il lessico recente della politica, specie d'ispirazione conservatrice, ha messo in circolo una formula ormai corrente: capitalismo compassionevole. Adam Smith, che di sentimenti se ne intendeva, aveva colto con grande finezza il carattere ambiguo della compassione, aveva mostrato come l'egoismo fosse una componente - o comunque un aspetto collaterale - del comune e pur autentico sentimento di pietà. La compassione, infatti, trae origine da "un immaginario scambio di posto con chi soffre"1 e tale che "noi arriviamo a concepire ciò che egli prova, o a esserne colpiti".2 A seguire, Smith così esemplifica: "Persone di fibra delicata e di debole costituzione lamentano che nel veder le ferite e le piaghe mostrate dai mendicanti per le strade tendono a sentire un prurito o una sensazione di fastidio nella corrispondente parte del proprio corpo. L'orrore che concepiscono davanti alla miseria di quei disgraziati colpisce quella zona particolare del corpo in loro più che in ogni altro, poiché tale orrore deriva dal concepire ciò che essi stessi patirebbero se realmente fossero i disgraziati sui quali stanno posando il loro sguardo".3 In diverso modo e in altro contesto questo capita anche ai cosiddetti forti. Quando, a partire dal Settecento, le strade e le piazze delle città furono ripulite dai mendicanti ciò accadde per motivi di pulizia-polizia, ma anche perché i buoni cittadini non fossero turbati nel loro benessere da visioni nauseanti. L'internamento della miseria era un modo adeguato per nasconderla senza affrettarsi ad eliminarla. Se non la si vede, infatti, non c'è. E se poi ci si muoveva incontro a essa lo si faceva prevalentemente nella forma delle beneficenza e della carità. Ora non v'è dubbio che all'origine della compassione vi è un reale sentimento di pietà, una predisposizione naturale a farsi carico della condizione degli altri, ma sarebbe certamente ipocrita tacere del fatto che nel compiangere l'altro spesso compiangiamo noi stessi, ci identifichiamo con una condizione che ci potrebbe toccare. A partire da qui, nel tempo si è venuta formando l'idea - più che mai razionale - che fosse opportuno predisporre anticipatamente un'assistenza generalizzata, concepita come bene sociale, come un vantaggio per tutti.
L'aiuto, come atto privato di generosità, era troppo debole quale garanzia collettiva. Su questa base è maturata sempre di più la convinzione che è scomodo essere ricchi in mezzo alla miseria poiché il degrado collettivo mette costantemente a rischio il benessere individuale, privandolo della tranquillità necessaria per fruirne davvero.
La beneficenza si è mostrata storicamente inadeguata per la soluzione dei problemi del bisogno. Tali problemi risultano al contrario meglio risolvibili se affrontati in termini di giustizia. A suo tempo, Smith aveva elaborato una chiara distinzione tra la beneficenza e la giustizia: "la beneficenza - scriveva - è sempre libera, non può essere estorta con la forza: la sua mera assenza non espone ad alcuna punizione, perché la mera assenza di beneficenza non tende verso alcun male reale e positivo".4 Nel dire questo, Smith ha perfettamente ragione: la beneficenza è cosa buona se viene fatta, ma non arreca danno alcuno se non viene fatta. E non è neppure un obbligo. In ciò differisce chiaramente dalla giustizia "la cui osservanza non viene lasciata alla nostra libera volontà, che può essere estorta con la forza e la cui violazione espone al risentimento e di conseguenza alla punizione".5 La giustizia a differenza della beneficenza è dunque obbligatoria e chi trasgredisce le leggi di giustizia è suscettibile di punizione. Smith rivela qui un'idea di giustizia fortemente sanzionatoria e in ciò risente della concezione del diritto dell'epoca. Non è certo questa la sede per affrontare una tale questione; quello che, però, è importante notare è il fatto che la giustizia se per un verso è obbligante, per l'altro dà a chiunque sia titolare di un diritto la possibilità di esigerlo, di rivendicarlo. L'assistenza, una volta concepita come dispensazione di prestazioni favorevoli all'implementazione del pubblico benessere, viene a formularsi in termini di diritto e perciò può essere esigita e contrattata pubblicamente come bene collettivo.
Nei suoi scritti Foucault ha ampiamente mostrato come il potere, da potere di sanzione o "diritto di morte", si sia nel tempo trasformato in potere "di" e "sulla" vita. In quanto potere sulla
vita riveste un valore ambiguo: può essere un potere invasivo e perciò limitativo delle libertà dei soggetti, rivelandosi così distorto e velatamente o allusivamente coercitivo; per altro verso il potere sulla vita può essere concepito come gestione della vita stessa, vale a dire come un potere socialmente distribuito. Un potere diffuso di governo, che pone i diversi soggetti nelle condizioni di pretendere d'essere collocati allo standard medio di vita delle società d'appartenenza e comunque mai al di sotto di esso. Di qui la legittimità di rivendicare nei confronti dello stato e delle amministrazioni un benessere sociale garantito, specie in tutti quei casi - e non sono pochi - in cui gli individui non sono nelle condizioni di assicurarselo con il solo reddito da lavoro.
La più grande invenzione politica del Novecento, il welfare, ha perseguito esattamente questo. È plausibile sostenere che una politica economica di questo tipo oggi non è più possibile o quanto meno è necessario introdurre correttivi strutturali per poterla ancora praticare; quel che, però, resta in ogni caso in piedi è la "filosofia politica" da cui il welfare ha tratto ispirazione e che a tutt'oggi lo motiva: i diritti sociali sono esigibili da tutti e non è pensabile che certi servizi siano limitati a un privato e meno che mai che siano discrezionali.
Una democrazia è effettivamente tale solo se tende a includere progressivamente gli esclusi o comunque coloro che non sono sufficientemente tutelati. Una concezione di questo tipo - che ha caratterizzato da sempre la sinistra, ma anche il cattolicesimo sociale e la borghesia avanzata - è orientata a guardare il mondo dal punto di vista degli esclusi e perciò prende a inizio del proprio operare i punti bassi della società. Questo punto di vista oggi viene sempre più oscurato. È corrente invece un lessico neoliberista che per la verità non espelle la solidarietà dalla politica, ma tende a interpretarla in termini di carità. La parola "carità" è in questo caso troppo importante per sprecarla ed è anche impropria. Allora è meglio dire sostegno se si vuole evitare elemosina. Le politiche neoliberali ritengono la solidarietà necessaria ai fini della coesione sociale, ma la pensano sempre meno in termini di mantenimento e allargamento dei diritti. Nel corso del Novecento la democrazia ha tentato di trasformarsi da democrazia formale in sostanziale proprio attraversi) un'espansione effettiva e materiale dei diritti. Il welfare, come filosofia politica, è il meglio che la storia ha selezionato nel corso del Novecento. Detto questo, sono profondamente convinto che il tue//iire debba essere riformato e che come taluni economisti sostengono si debba passare da uno stato del benessere a una società del benessere. D'altra parte la complessificazione della società non consente più allo stato centralizzato, e meno che mai alla sua amministrazione, di governare i deficit sociali e di ridurre l'esclusione. Al contrario è giusto che sia la società stessa - attraverso le autonomie, il privato sociale, le attività no profit, il volontariato ecc. - a trasformare gli esclusi in cittadini. A tal fine non bisogna certo imbrigliare la creatività del sociale, ma non bisogna neppure dimenticare che l'eliminazione dell'esclusione è una questione di diritti e non può mai risolversi nel semplice soccorso.
Quando la sinistra tradizionale, in tempi ormai lontani, polemizzava contro le istituzioni assistenziali e volontarie, pensandole come residui, certamente sbagliava ma l'intenzione non era solo biecamente statalista. A suo modo, essa esprimeva una verità: l'inclusione ha poco da spartire con l'assistenza al bisogno, ma riguarda i diritti. In democrazia il cittadino gode di quel che ha perché gli spetta e non perché gli è dato: il titolare di diritti per definizione non dipende, ma esige.
Ha ragione da vendere chi sostiene che le associazioni di volontariato certe cose le fanno meglio e con meno soldi e che la solidarietà non dev'essere confusa con assistenzialismo e burocrazia. Ma proprio perché la solidarietà non dev'essere confusa con l'assistenzialismo essa si configura come un diritto per i cittadini e come un obbligo per le istituzioni. Dico obbligo, non scelta. Che poi, per realizzare questo, bisogna evitare il parassitismo e la burocrazia, è cosa su cui mi trovo perfettamente d'accordo. Il problema vero, però, non è tanto quello di fronteggiare le condizioni di degrado, ma quello di elaborare politiche sociali adeguate per eliminarlo. E allora è necessario evitare quell'impalpabile ricaduta nel degrado che va sotto il nome di "nuove povertà". Poveri invisibili sono oggi tutti quelli che perdono il lavoro e non riescono a ritrovarlo, che escono fuori dal circuito attivo e si ritrovano collocati irreversibilmente nell'ambito della marginalità. E non sono stati mai davvero poveri e quindi sono ancora più disagiati a esserlo: addirittura per vergogna cercano di dissimulare questa loro nuova condizione. E poi vi è la crescente fascia di persone che si può dire vivano ai limiti della sopravvivenza, da definire però in riferimento a quel che la società contemporanea offre: vi sono poveri, infatti, che sono tali non tanto perché non hanno di che vivere ma perché sono loro sbarrati gli accessi a livelli di più alta qualificazione formativa e sociale.
È vero che queste nuove povertà possono essere eliminate o fronteggiate con un incremento della ricchezza sociale media; è vero che non è attraverso l'assistenza ma l'efficienza che una società moderna può ridurre le sue povertà. Ma quest'idea di per sé corretta è spesso maschera per altro. Sarebbe infatti superficiale trascurare l'atteggiamento che nella società contemporanea spesso si tiene nei confronti delle povertà. I poveri vengono facilmente ignorati. Vediamone il perché.
Nel corso del Novecento le grandi lotte sociali e operaie hanno visto quali protagoniste larghe masse di esclusi. Erano davvero in tanti e questa è stata una delle ragioni storiche della crescita dei partiti di sinistra e dell'alleanza privilegiata che questi hanno potuto stipulare con il cattolicesimo sociale e con frange della stessa borghesia moderata. Oggi per fortuna l'inclusione sociale è ampiamente avvenuta e per questo l'interesse dei gruppi e dei singoli non è più quello di essere inclusi sia pure al minimo (per esempio un lavoro qualsiasi pur di lavorare) ma di accedere al massimo o quanto meno al meglio che la società offre. Le politiche di welfare hanno trasformato il volto della società e grazie a esse siamo passati dalla povertà delle masse alle minoranze povere. Ma proprio per questo marginali. Il benessere acquisito dalla maggioranza ha generato una progressiva e fors'anche involontaria indifferenza nei confronti delle povertà. Si guarda in modo crescente al perseguimento del successo individuale e ciò è divenuto perfino cifra della vita sociale, in parte la sua nuova ideologia. Allora, un nuovo egoismo? Forse. Non bisogna però trascurare come in una società degli egoismi sia tutt'altro che peregrino imputare ai poveri la loro povertà come una colpa e non scorgere in essa il possibile esito di diritti negati. Si dà però il caso che i poveri oggi appaiano, ma per una diversa ragione: per dare ai ricchi l'occasione di compier:e buone azioni, d'essere generosi.
Pare che un cattolico conservatore dell'Ottocento dicesse: "Ma se non ci sono i poveri, i ricchi come fanno ad andare in paradiso?". Questa concezione mi è tornata alla mente quando mi è capitato di leggere una di quelle frasi che il "Corriere della sera" usa mettere in testa all'apertura delle pagine culturali. Era di Margaret Thatcher e diceva: "Nessuno si sarebbe ricordato del buon samaritano se avesse avuto solo delle buone intenzioni. Il fatto è (parola di Gesù) che aveva anche i soldi". La Thatcher, come si vede, ritiene che senza soldi non si può essere neppure buoni. In ciò dimentica che la carità cristiana ha poco a che fare con l'elemosina e che "essere prossimo" vuol dire accostarsi all'altro chiunque egli sia e qualunque sia la sua condizione sociale. E da questo punto di vista anche i ricchi sono bisognosi. Le povertà sono, infatti, di varia natura e riguardano anche lo stato della mente, l'anima. Ma per non citare il Vangelo solo a sproposito vale la pena di ricordare quell'episodio in cui si narra di alcuni ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro del tempio. Anche una vedova fece la sua e offrì "tutto quello che aveva". E Gesù disse: "Questa vedova, povera, ha messo più di tutti... Tutti costoro infatti hanno deposto come offerta il loro superfluo, questa invece nella sua miseria ha dato tutto quello che aveva per vivere" (Lc 21, 2).
La carità come dono incondizionato di sé è altra cosa dalla giustizia, tant'è vero che la politica di per sé non l'esige. La carità precede, forse fonda e comunque completa la politica, ma a questa tocca prioritariamente in carico la giustizia. La politica garantisce i diritti, salvaguarda ciò che per tutti è necessario; la carità, al contrario, benefica anche chi lo non merita, comanda di amare perfino i nemici. Non è dunque compito della politica essere caritatevole, ma è suo obbligo perseguire l'uguaglianza, quale autentica e universale tutela delle libertà. Il capitalismo cosiddetto "compassionevole" adombra l'idea che lo stato sociale sia una pratica diversa dalla giustizia e così, morbidamente e quasi sottobanco, la ricolloca nei confini della vecchia beneficenza. Ma già alle origini del capitalismo, Smith avvertiva che "la beneficenza è meno essenziale della giustizia all'esistenza della società. La società può sussistere, anche nel migliore dei modi, senza beneficenza; ma necessariamente, il prevalere dell'ingiustizia la distrugge del tutto".6 Alla luce di questa sagace indicazione, ci è dato comprendere come nella società contemporanea l'assistenza rimane del tutto fraintesa, e si muta addirittura in una nozione equivoca, se non la si concepisce in termini di giustizia. "Ma anche se la necessaria assistenza non dovesse essere fornita da motivi generosi e disinteressati, anche se tra i differenti membri della società non dovessero esserci amore e affetto reciproco, la società, pur essendo meno felice e piacevole, non necessariamente ne risulterebbe dissolta. La società può sussistere tra uomini diversi, come tra diversi mercanti, per il senso della sua utilità, senza alcun amore o affetto reciproco."7 Nel parlare di assistenza, partiamo dunque dal prosaico e ragioniamo di diritti. Da Smith a oggi di tempo ne è passato e abbiamo un'idea più larga circa quel che per noi può e deve significare necessaria assistenza; nello stesso tempo abbiamo acquisto una più sofisticata nozione di utilità. Oggi non è possibile perseguire un vero utile privato se si prescinde dal pubblico benessere. La garanzia del pubblico benessere è, allora, da considerare come un fattore ineliminabile di utilità. E tutto ciò senza chiamare in causa l'amore - meno che mai quello cristiano - che è troppo esigente per poter essere preso per vero senza sospetto.
"Maschi si nasce, Uomini si diventa"
Avatar utente
grazia
politico
 
Messaggi: 2073
Iscritto il: 14/01/2014, 13:50
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda grazia » 30/01/2018, 11:23

IL LAVORO E' DIRITTI NON SCHIAVITU'


Contestare tesi apparse su un quotidiano a cui si collabora è una forma di grave ineleganza oppure espressione di apprezzabile pluralismo?

Nel caso sia “buona la seconda”, vorrei manifestare totale dissenso nei confronti dell’equiparazione lavoro-schiavitù teorizzata ieri su il Fatto Quotidiano da Massimo Fini. Convinto, come sono, che il Lavoro (con la “l” maiuscola) meriti ben più di qualche frettolosa considerazione blasé; magari da parte di chi vagheggia bimillenari ritorni a tempi in cui le attività manuali erano “macula servile”.

Perché il lavoro non è solo un insieme di pratiche, è una civiltà. Quanto i Padri Costituenti avevano ben chiaro vergando la Carta Costituzionale, non certo per ragioni bassamente economicistiche (e – vorrei ricordare – il “liberista” a cui Fini fa riferimento si chiamava Luigi Einaudi; da non confondere – pena la querela – con gli odierni NeoLib. Visto che aveva scritto, per un certo editore chiamato Piero Gobetti, il saggio “Le lotte del lavoro”, propugnandone la “bellezza”).

D’altro canto, come può parlarne con un minimo di conoscenza di causa chi probabilmente non ha mai neppure messo piede in una fabbrica del tempo che fu? Quella fabbrica che, pur con tutte le sue durezze, era uno dei luoghi più “sani” di un mondo oggi perduto; un luogo dove i rispettivi ruoli erano chiari, le differenti posizioni esplicite e i conflitti si manifestavano alla luce del sole. Ma anche un luogo dove giungevano a sintesi, nel comune impegno di realizzare qualcosa nel modo migliore, l’operosità borghese e il riscatto proletario. Dedizione e fierezza.
Chi scrive, nella sua vita spettinata, è stato piccolo imprenditore metalmeccanico per alcuni lustri. Così ha potuto imparare in presa diretta ad apprezzare quella che allora si chiamava “controparte”, capire che esisteva davvero una “cultura operaia” senza bisogno di leggere La chiave a stella di Primo Levi, conoscerne le tecniche di sopravvivenza come sapere pratico e le gerarchie informali, legate all’abilità di connettere al meglio mano e mente. Ricorda ancora l’operaio che gli estrasse uno sfrido metallico dall’occhio arrotolando a cilindro un foglio di carta, come l’altro che disse “questo è il mio capitale” mostrando le braccia. E non era retorica, ma consapevolezza (nessuno sapeva fare merletti al tornio e alla fresa come lui).

Al tempo stesso serba memoria delle famiglie borghesi in cui si educavano i figli a un senso del dovere latamente calvinistico: “fai tu quello che poi chiedi agli altri”… “primo ad entrare al lavoro, ultimo ad uscire”…

Certo, all’interno di questo intreccio valoriale perdurava il conflitto sociale. Non patologia, bensì formidabile spinta innovativa e integrativa. Perché era in questa dimensione che i cosiddetti dipendenti conquistavano i diritti del e per il lavoro, si trasformavano da moltitudine informe (e dispersa, come nell’età preindustriale del povero socialmente insignificante, prima ancora che endemicamente affamato) in un soggetto collettivo intenzionato ad autodeterminarsi e che apprendeva la solidarietà chiamandola mutualismo; smascherando il paternalismo insito nella carità, come cristallizzazione delle posizioni subalterne. Che poteva farlo proprio grazie alla sua centralità nei processi produttivi.
Certo, un mondo che ci siamo lasciati alle spalle. Tanto che se il XX è stato il secolo del lavoro, il XXI rischia di essere quello dei lavoretti. Ma questo è il risultato di un’immane e perversa operazione politica grazie alla quale le plutocrazie finanziarie ora riprendono il controllo sociale smaterializzando la realtà. Dunque, spezzando tavole di valori e annientando ogni controparte in grado di opporsi.

L’attacco al Lavoro di questi decenni è stato tutto questo. Non capirlo, propugnando i manierismi dell’ozio, può andare bene nelle chiacchiere in un caffè di San Babila o sulla calata di Portofino. Ma – in tale maniera – si finisce soltanto per lavorare a vantaggio dei re di Prussia che stanno facendo strame dei diritti e della dignità. E, con essi, di un mondo che aveva una sua etica, una sua epica e perfino una sua estetica. Che va rivalutato (e ritrovato) al più presto.

Pierfranco Pellizzetti
"Maschi si nasce, Uomini si diventa"
Avatar utente
grazia
politico
 
Messaggi: 2073
Iscritto il: 14/01/2014, 13:50
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda grazia » 30/01/2018, 11:55

Il lavoro è schiavitù. Ripensiamolo

di Massimo Fini

da Il Fatto Quotidiano

Quando al V-Day di Genova Grillo, abbandonato per un momento il mantra del «Tutti a casa», che campeggiava anche sulle magliette distribuite in Piazza della Vittoria è tornato sul tema del lavoro (già sfiorato in altre occasioni senza ottenere molta attenzione) visto pero' in un'ottica completamente diversa da quella attuale («Chi non lavora non mangia») affermando che «il lavoro è schiavitù e deve essere ripensato», la folla osannante che gremiva la piazza non lo ha seguito e non lo ha capito. Eppure questa visione del lavoro è centrale se non nell'intero Movimento 5Stelle, certamente lo è, anche se in modo un po' confuso, nel pensiero del suo leader, cosi' come per la Lega delle origini lo era l'identità prima che tracimasse in xenofobia.

Prima della Rivoluzione industriale il lavoro non era mai stato considerato un valore. Tanto che è nobile chi non lavora e artigiani e contadini lavorano per quanto gli basta, il resto è vita. C'è qualche studioso (R. Kurtz, 'La fine della politica e l'apoteosi del denaro', Manifestolibri, 1997) che ipotizza che in epoca preindustriale non esistesse il concetto stesso di lavoro cosi' come noi modernamente lo intendiamo, semmai quello di mestiere che è cosa diversa. Anche la Chiesa, almeno a stare a San Paolo, considerava il lavoro solo «uno spiacevole sudore della fronte». E' l'Illuminismo che, razionalizzando gli straordinari sconvolgimenti portati dall'industrialismo, fa del lavoro un valore, sia nella sua declinazione liberista che marxista. Per Marx il lavoro è 'l'essenza del valore', per i liberisti (Adam Smith, David Ricardo) è quel fattore che combinandosi col capitale dà il famoso 'plusvalore'. Da questo punto di vista liberismo e marxismo si differenziano molto poco (Stakanov è un'eroe dell'Unione Sovietica e Lulù, nella magistrale interpretazione di Gian Maria Volontè, è, almeno nella prima parte del film, lo Stakanov italiano nel beffardo capolavoro di Elio Petri, 'La classe operaia va in Paradiso'). E' da qui che ha inizio la deriva economicista che ci porterà al paradosso per cui noi oggi non produciamo nemmeno più per consumare ma consumiamo per poter continuare a produrre. E un operaio deve scegliere fra lavoro e salute. O la cassiera di un Supermarket deve considerare vita passare otto ore al giorno alla calcolatrice senza scambiare una parola col cliente-consumatore. O un ragazzo deve sentirsi fortunato se lavora in un call-center. Volete altro? Che senso ha aver inventato strumenti che velocizzano al massimo il tempo se poi siamo costretti a impiegare il tempo cosi' guadagnato in altro lavoro (magari investito nella creazione di strumenti ancor più veloci in un circolo vizioso che non ha mai fine). Abbiamo usato malissimo la tecnologia. Avrebbe potuto liberarci dalla schiavitù del lavoro e invece l'abbiamo utilizzata per renderlo ancor più alienante, o assente proprio mentre lo abbiamo reso necessario. Cio' a cui, sia pur confusamente, pensa Grillo (e non so se i suoi giovani seguaci, tantomeno i suoi elettori, l'hanno capito) è un ritorno al passato. Non è un rivoluzionario ma un reazionario (anche se, a questo punto, le due cose finiscono per coincidere). Pensa a un ritorno all'agricoltura, all'artigianato, a una piccola impresa che non superi le dimensioni dell'antica bottega. Utopia? Oggi certamente si'. Domani forse no. Ed è qui che l'ormai vecchio Beppe si differenzia dal giovane paraculo Renzi. Rottamare tutti, mandare «tutti a casa» non ha senso se poi si continua col modello di sempre.

Massimo Fini

Il Fatto Quotidiano
"Maschi si nasce, Uomini si diventa"
Avatar utente
grazia
politico
 
Messaggi: 2073
Iscritto il: 14/01/2014, 13:50
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda grazia » 01/02/2018, 14:17

Amazon brevetta un braccialetto elettronico: così controllerà merce e dipendenti



'ULTIMA trovata di Amazon per velocizzare la ricerca dei prodotti stoccati nei magazzini da parte dei dipendenti è il braccialetto wireless. Il gigante dell'ecommerce lo ha appena brevettato ed è in grado di monitorare con precisione dove si mettono le mani, vibrando per guidarle nella giusta direzione e di fatto controllando tutti i loro movimenti.

Il prototipo descritto da GeekWire trasmette i dati dell'ordine effettuato sul mini computer al polso del dipendente che dovrà scattare a prendere la merce, metterla in una scatola e passare al compito successivo. Il brevetto depositato nel 2016 è stato riconosciuto ufficialmente martedì scorso e adesso la soluzione che Amazon potrebbe adottare per sveltire le consegne non sembra più così lontana.

Si tratta, spiega Gizmodo, di un sistema basato su tre fattori: il braccialetto indossato dal lavoratore che comunica con i trasduttori a ultrasuoni posizionati nell'ambiente circostante e un ''modulo di gestione'' che permette di tracciare i movimenti. Il prossimo step, suggerisce il brevetto, è l'automazione totale dei processi che però al momento trasformerebbero sostanzialmente gli uomini in macchine controllate.

Ma si affaccia la questione privacy, visto che il braccialetto fornito dal datore di lavoro può essere anche un mezzo per sorvegliare i dipendenti. "Amazon - ricords GeekWire - si è già guadagnata la reputazione di una società che trasforma i dipendenti, pagati poco, in robot umani che lavorano vicino a veri robot, portando avanti compiti ripetitivi di packaging il più velocemente possibile" con l'obiettivo di centrare gli ambiziosi target di consegna fissati dalla società di Jeff Bezos.

Negli ultimi mesi del 2017 in Italia i dipendenti Amazon hanno deunciato condizioni di lavoro ritenute troppo dure, ricorrendo allo sciopero in occasione del Black Friday per chiedere un dialogo tra azienda e sindacati. "I 'pickers' di Amazon per ogni turno, percorrono
dai 17 ai 20 chilometri attraverso lo stabilimento a movimentare merci e pacchi" denunciavano allora i rappresentati dei magazzinieri. Il contratto nazionale è tuttora sul tavolo della trattativa in attesa che venga rivisto, a cominciare da bonus economici e carichi di lavoro.

La Repubblica
_________________________________________________________________________________
"siamo uomini o Robot" direbbe oggi la buon'anima di TOTO'
"Maschi si nasce, Uomini si diventa"
Avatar utente
grazia
politico
 
Messaggi: 2073
Iscritto il: 14/01/2014, 13:50
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda grazia » 02/02/2018, 11:18

IL CASO AMAZON
Il buonsenso è merce rara e non si compra su Internet

Gli errori di spedizione si possono affrontare anche negoziando un’organizzazione del lavoro capace di conciliare l’efficienza operativa con il rispetto della persona

di Dario Di Vico


Per le aziende dell’e-commerce è decisivo ridurre gli errori di spedizione. Evitare che un libro o un computer diretti a Trieste finiscano invece nella pipeline del corriere-espresso che si muoverà alla volta di Bologna. E siccome gli addetti a questa delicata mansione svolgono per ore un lavoro ripetitivo, la possibilità che sbaglino scatolone e mandino la merce in fuorigioco è elevata. I costi per l’azienda sono alti: il libro va e torna raddoppiando la spesa-trasporto, in più il consumatore che attende il prodotto scelto online sarà indotto a pensare che si è rivolto a un sistema inefficiente e quindi a cambiare fornitore.
Rfid
Per evitare quest’inconveniente la Yoox di Federico Marchetti ha fatto brevettare un sistema nato nell’università di Parma (chiamato Rfid): passando un lettore ottico sopra il codice a barre della merce fa accendere due luci messe in bella evidenza sullo scatolone giusto. In questo modo l’operatore viene aiutato nella scelta e si riducono gli errori. Invece il sistema brevettato da Amazon è differente perché controlla direttamente i movimenti degli addetti al carico tramite il braccialetto elettronico e li indirizza. Per evitare gli errori non aiuta l’operaio dell’e-commerce ma lo robotizza, vincola il corpo (le sue mani) ad andare in una direzione o nell’altra togliendo qualsiasi autonomia di movimento.
Come i robot
Non sappiamo se questo brevetto verrà utilizzato e in quali Paesi. In Italia sicuramente confligge con lo Statuto dei lavoratori e quindi tutto ciò non avverrà, ma al di là della sua applicazione pratica la sola notizia dell’invenzione del brevetto abbatte una barriera simbolica, l’efficienza «comanda» i movimenti delle mani con un dispositivo elettronico e tutto ciò fa gridare al nuovo schiavismo. Ma al di là dei commenti dei politici impegnati nella campagna elettorale l’unico risultato concreto che il bailamme sul «brevetto schiavista» avrà sarà quello di rendere ancora più difficile l’evoluzione delle relazioni industriali in Amazon, almeno in Italia. Il tema degli errori di spedizione si può tranquillamente affrontare non solo con tecnologie «amiche» ma anche negoziando un’organizzazione del lavoro capace di conciliare l’efficienza operativa con il rispetto della persona. Basta ad esempio turnare gli addetti alla spedizione con maggiore frequenza di quanto si faccia. Il buon senso però di questi tempi è merce rara e non si compra online.
"Maschi si nasce, Uomini si diventa"
Avatar utente
grazia
politico
 
Messaggi: 2073
Iscritto il: 14/01/2014, 13:50
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda grazia » 03/02/2018, 2:16

Alla ricerca della perduta autorità sui figli

Egr. dott. Augias, ho 38 anni faccio l' autista di bus, ho a che fare ogni giorno con i ragazzi, mi capita spesso di chiedermi se anch' io ero così alla loro età. Giocano col telefonino, se lo abbandonano è per urlarsi dei vaff, degli str, deficiente, testa di qua e di là. La noncuranza per chi li circonda è totale. Salgono e scendono da dove capita, fanno capannelli davanti alle porte, intralciano le altre persone, imbrattano le vetture, prenotano la fermata perché si divertono a schiacciare un pulsante ma quando devono scendere lo fanno con grande lentezza. Se qualcuno si azzarda a criticarli sono risolini di compatimento quando va bene, se sono in gruppo (li fa sentire fortissimi) torniamo agli epiteti di cui sopra al «critico» di turno. Sono ragazzi e forse, telefonino a parte, un po' ero così pure io alla loro età. Però il ricordo che ho dei miei 15 anni è che se ti comportavi in quella maniera, trovavi qualcuno che alzava la voce, l' autista il prof o l' anziano. Qualche volta volavano pure degli scapaccioni. Qualcuno dice che la colpa è dei genitori, altri della scuola. Ma cosa potrà mai fare la scuola se il permissivismo in famiglia è assoluto? Strani genitori moderni, quando sono in vena di sfogo ti confessano che non riescono a tenerli i figli, che la salvezza è l' aula della scuola. Poi se qualcuno si azzarda a toccarglieli perché fanno casino eccoli con i «come si permette», eccetera. Anticamera, quando cresceranno, delle lamentele sui voti bassi. Andrea Amaduzzi a-amaduzzi@hotmail. com Secondo un' indagine Ipsos (febbraio 2005), il 70 per cento di italiani ritiene che i genitori siano troppo permissivi, troppo disposti a proteggere i loro figli: contro un brutto voto a scuola, una qualche azione disciplinare promossa al di fuori della famiglia. L' indagine rivelava anche una diffusa nostalgia delle «punizioni», degli «schiaffi» che, secondo otto italiani su dieci, in alcuni casi «fanno bene». Il dato sorprendente dell' indagine era che questi sentimenti sarebbero diffusi non solo tra gli ' anziani' , genitori e nonni, ma nella stessa misura anche tra i giovani e i giovanissimi. Sono cioè le potenziali ' vittime' a rimpiangere più energiche azioni disciplinari. Dietro questi orientamenti, commentava Ilvo Diamanti: «Si coglie una nostalgia per l' autorità perduta da genitori che oggi appaiono «poco autorevoli», incapaci di proporre tanto meno di imporre modelli e valori. Anche se i figli «dipendono» da loro, più del passato». Qui infatti è il paradosso, ragazzi e ragazze restano più a lungo in casa con i genitori ma i genitori diventano spesso, fin dagli anni dell' adolescenza, degli ' albergatori' dei loro figli: pranzo e cena, biancheria lavata, qualche spicciolo per il cinema, ma nessuna autorità o sfoggio di minacce che suonano ridicole più che temibili. E' difficile essere autorevoli in una società dove ogni principio di autorità viene, sistematicamente, delegittimato, dove gli esempi che grondano dalla pubblicità e dalla televisione sono quelli che sono e la spinta più forte è verso i consumi. Ci vorrebbe nei genitori un' energia e una convinzione che spesso manca. Si preferisce ' dialogare' con i figli annullando così quella ' asimmetria di rapporto' che è alla base di ogni efficace pedagogia.
"Maschi si nasce, Uomini si diventa"
Avatar utente
grazia
politico
 
Messaggi: 2073
Iscritto il: 14/01/2014, 13:50
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda grazia » 04/02/2018, 11:02

Salemi e l’ultima farsa di Sgarbi
febbraio 2012
Più informazioni su: Giuseppe Giammarinaro, Mafia, Salemi, Vittorio Sgarbi
Sonia Alfano
Presidente della Commissione Antimafia europea


Finalmente si fa luce sull’amministrazione comunale di Salemi! Quasi un anno fa, a seguito dell’operazione “Salus Iniqua”, che portò al sequestro di 35 milioni di euro alla persona che volle la candidatura di Vittorio Sgarbi a sindaco di Salemi, inviai una nota ufficiale al Ministero dell’Interno (e per conoscenza al Prefetto di Trapani), per chiedere di valutare la possibilità dello scioglimento del consiglio comunale della cittadina trapanese. In quella occasione, come in altre, Sgarbi replicò con offese e intimidazioni.
Ora la Commissione di accesso agli atti ha finito il suo lavoro e ha inviato la relazione (centinaia di pagine) al Ministero dell’Interno. Io non ho dubbi sul fatto che il comune di Salemi sarà sciolto per infiltrazioni mafiose. Nella misura di prevenzione personale e patrimoniale chiesta e ottenuta dalla Questura di Trapani ai danni di Giuseppe Giammarinaro, pluripregiudicato e presunto mafioso, infatti, era già ben delineata l’importanza che le pressioni mafiose avevano sulla giunta di Vittorio Sgarbi.
Eppure oggi il sindaco, nell’annunciare per l’ennesima volta le sue dimissioni, dice di non essersi mai accorto di nulla. E’ l’ultima delle volgari farse del noto pregiudicato. Nel leggere le sue parole ho ricordato di quando insieme ai ragazzi del Meetup di Palermo sono andata a Salemi, al suo comizio con “tapiri” sul palco e “picciotti” in prima fila, per informare i cittadini sul suo davvero poco limpido passato e sulle sue amicizie con personaggi equivoci: nello specifico l’ex democristiano andreottiano Giuseppe Giammarinaro, noto alle cronache giudiziarie trapanesi per essere stato anche destinatario di una misura di sorveglianza speciale. In quell’occasione il candidato sindaco Vittorio Sgarbi incaricò i “picciotti” di Giammarinaro di aggredirci. Poi lo ringraziò per il sostegno elettorale.
Come dicevo, il sindaco non si era accorto di essere amico di Giammarinaro né si era accorto di come questi avesse condizionato l’attività della sua amministazione, sebbene fosse noto un po’ a tutti. Oggi, peraltro, un attimo prima di annunciare le sue dimissioni, ha sospeso il “concorso” (altra trovata ridicola del suo percorso politico) indetto per nominare un vicesindaco e ha fatto la sua scelta. Chi avrà nominato? Giuseppe Giammarinaro!! Incredibile ma vero! Mi auguro che sia davvero l’ultimo dei suoi scriteriati atti contro Salemi.
In passato, tra le altre cose, Sgarbi fece delle pesantissime allusioni sull’Associazione che presiedo, quella che riunisce i familiari delle vittime innocenti della mafia. Insinuò un fantomatico “sperpero di danaro pubblico”, pur essendo perfettamente consapevole del fatto che ci siamo sempre autofinanziati. Sempre in quella circostanza, mi accusò di volere la Sicilia in mano alla mafia per poter continuare a “fingermi vittima”, offendendo non solo me, ma anche la memoria di mio padre, giornalista ucciso dalla mafia nel 1993.
Bene, oggi mi pare chiaro un concetto: non sono io il sindaco di un comune che sta per essere sciolto per gravi infiltrazioni mafiose. Non sono io che ho appena nominato vicesindaco il presunto mafioso Giammarinaro. Non sono io che voglio la Sicilia in mano alla mafia. Anzi. Io questo scioglimento l’ho chiesto, quindi mi pare evidente che la mafia la disprezzo, così come disprezzo quanti colludono con essa.
"Maschi si nasce, Uomini si diventa"
Avatar utente
grazia
politico
 
Messaggi: 2073
Iscritto il: 14/01/2014, 13:50
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda grazia » 04/02/2018, 11:28

Il Palazzo delle parolacce nel Paese della volgarità
di di Marcella Smocovich


Parolacce, gesti osceni e sessisti, in Parlamento, in autobus, a scuola, negli uffici. E gli italiani sembrano rassegnati ad un turpiloquio che ha sempre come oggetto la donna e che spesso viene scambiato come linguaggio di modernità e liberalizzazione. L’italiano, lingua nobile adatta alla poesia, rischia di diventare schiava di una modernità che è ignoranza e scurrilità e dimostra solo la propria volgarità
Il Senato sospende due senatori per gesti osceni, la tv trasmette Vittorio Sgarbi che s’infuria e spara parolacce, mentre Stefano Esposito, assessore (dimissionario) al Comune di Roma durante l’assemblea del Campidoglio bestemmia ed è costretto a scusarsi, e Beppe Grillo da politico e non da comico descrive oscenità omosessuali senza filtri. Il tutto spesso accompagnato da gesti osceni, da braccia ad ombrello, medio alzato, corna. La mimica italiana diventa oscena e si manifesta in strada come nelle istituzioni in tutta la sua volgarità, quasi a diventare linguaggio comune.
Parolacce, gesti osceni e sessisti che ormai, si possono ascoltare ovunque in Italia: in autobus, a scuola, negli uffici. E gli italiani sembrano rassegnati ad un turpiloquio che ha sempre come oggetto la donna e che spesso viene scambiato come linguaggio di modernità e liberalizzazione. E la parolaccia è spesso accompagnata da un gesto osceno. Ma se in passato anche Aristofane, commediografo dell’Antica Grecia accompagnava i discorsi con parolacce, e Dante Alighieri pure, rompere le convenzioni con parole e gesti scurrili è diventata una moda in Italia. E’ recente la sospensione di cinque giorni dei senatori verdiani : il capogruppo Lucio Barani, e il portavoce Vincenzo D’Anna per aver fatto gesti osceni verso una senatrice dei 5Stelle. Il primo ha mimato un rapporto orale, il secondo con ambedue le mani ha indicato i propri genitali. (vedi video Youtube Senatore d’Anna ). Poi ai giornalisti ha negato e spiegato che il suo gesto è stato frainteso e che lui voleva solo dire di ingoiare i fascicoli. Ma ai suoi gestacci, urlando, la senatrice del Movimento 5 Stelle ha gridato in risposta: “Sei un porco!!Maiale!Maiale!”. Una bagarre in pieno Senato. Maschilisti e volgari i senatori hanno fatto indignare non solo il presidente del Senato Grasso, ma anche altre senatrici, anche se non è la prima volta che le Camere d’Italia sono spettatrici di bagarre di questo tipo. Con le donne bersaglio preferito.
Famosissimi sono gli insulti di Sabina Guzzanti a Mara Carfagna, ex ministro delle Pari Opportunità del governo Berlusconi: “ Tu non puoi mettere lì una solo perché ha succhiato l’uc…” , disse in una piazza. Nessuno protestò a sinistra, ma la comica fu condannata a risarcire il ministro con 40 mila euro. Razzismo, sessismo a firma della scrittrice Lidia Ravera, anche per Condoleeza Rice, segretario di Stato Usa che sull’Unità scrisse: “Con quelle guancette da impunita è la lider maxima delle donne-scimmia”. Ancora una volta si colpisce una donna nel suo aspetto fisico, anche a firma di una scrittrice famosa in passato per i temi di libertà ed emancipazione. Prova ne è che la donna è sempre prostituta e puttana quando ricopre ruoli di potere. Donne insultate e additate come pervertite sessuali (accusata di essere lesbica la fidanzata di Berlusconi), ma anche auguri di essere stuprata in piazza all’atleta russa che aveva goffamente difeso le leggi anti-gay di Putin. Ma anche agli uomini tocca essere presi in giro per l’altezza, (Renato Brunetta) gli handicap (Bossi) o difetti fisici, malattie e colore della pelle. E non stiamo parlando di comici che per mestiere ridicolizzano tutti. Insomma un linguaggio che nonostante la paventata parità tra uomini e donne ancora non cambia. A tutti i livelli. Perché se in Senato si usano certi termini, in strada tutti sono autorizzati a fare altrettanto. Senza contare che solo recentemente Facebook ha limitato i commenti osceni, che però spesso continuano. Ma quelle scene in Senato sono uno spettacolo scurrile che indigna e trasforma le istituzioni in arene insopportabili e duelli che di politico non hanno nulla. E mentre l’Espresso stila una classifica per votare la peggiore volgarità, l’accademia della Crusca accoglie anche neologismi di dubbio gusto. Per esempio, il verbo “sfanculare” è diventano ormai sinonimo di evitare. Per non parlare dei romani in auto. Donne e uomini sono spesso protagonisti di risse incredibili alla guida, per un segnale non rispettato o un sorpasso. In auto, esasperati dal traffico gli automobilisti romani danno il meglio di sé verso pedoni, anziani o incerti guidatori. Urla, grida in auto non solo prerogativa dei tassisti o degli autisti dei bus, ma ho ascoltato con le mie orecchie una volta una distinta signora ingioiellata gridare: “Fatte una dieta”…ovvero cicciona che non sei altro, sbrigati a passare sulle strisce, perché ho fretta. Per non parlare del classico “cornuto” che è accompagno dal gesto della mano
Se negli anni 70 si veniva banditi dalla tv se scappava una parolaccia in diretta, oggi Sgarbi viene invitato anche perché è un rissoso che insulta con veemenza chiunque non sia d’accordo con lui e per questo alza gli ascolti; nella casa del grande Fratello sempre in diretta si assiste a liti con bestemmie e parolacce o gesti osceni, sesso più o meno velato, senza contare i programmi in cui si spiattellano corna, tradimenti e figli illegittimi come niente fosse. Sdoganando così il linguaggio scurrile che ormai in metropolitana o negli uffici è diventato comune. Mentre una volta solo l’espressione “miiii…” che evocava l’organo genitale maschile in siciliano suscitava indignazione, oggi l’esplica e volgarissima di “caxxo” è entrata nel lessico comune come intercalare. E la tv non la censura più.
Stiamo diventato un popolo di volgarissimi sessisti e bestemmiatori? Anche se un tribunale ha stabilito che bestemmiare non è reato, resta orribile ascoltare certe oscenità. L’italiano, una lingua nobile adatta alla poesia rischia di diventare schiava di una modernità che è ignoranza e scurrilità e dimostra solo la propria volgarità.
Ma perché di dicono le parolacce? Secondo certi psicologi della Keele School of Psychology inglese, il gesto volgare, la parolaccia deriverebbe dal livello di aggressività. Arrabbiarsi aumenterebbe la frequenza cardiaca, l’ adrenalina e innalzerebbe la soglia del dolore: imprecare sarebbe quindi un modo per sentirsi meglio. Insomma le parolacce farebbero bene alla salute. E si comincia a 3 anni, ascoltando gli adulti in casa. Ma non si finisce mai......
________________________________________
"Maschi si nasce, Uomini si diventa"
Avatar utente
grazia
politico
 
Messaggi: 2073
Iscritto il: 14/01/2014, 13:50
Top

Re: Media e dintorni

Messaggioda grazia » 11/02/2018, 12:46

Del festival di Sanremo ho visto solo l' ultima serata e sono contenta di averlo fatto
perchè altrimenti mi sarei persa una perla interpretativa che non mi sarei mai aspettata.
(indipendentemente dal contenuto ) .

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=Hcm4BixLjeQ[/youtube]
"Maschi si nasce, Uomini si diventa"
Avatar utente
grazia
politico
 
Messaggi: 2073
Iscritto il: 14/01/2014, 13:50
Top

PrecedenteProssimo

Rispondi al messaggio
202 messaggi • Pagina 12 di 14 • 1 ... 9, 10, 11, 12, 13, 14

Torna a Istruzione, cultura, letteratura, poesia

Chi c’è in linea

Visitano il forum: Nessuno e 7 ospiti

Ingresso al Forum
  • Login
  • Iscriviti
  • FAQ
  • Iscritti
Cerca
  • Messaggi senza risposta
  • Argomenti attivi
  • Ricerca avanzata
Quotidiani e Utility
  • Sondaggi Politici dal Dipartimento Editoria
  • Camera dei Deputati in diretta video
  • Senato della Repubblica in diretta video
  • Ansa
  • Il Giornale
  • Libero
  • Corriere della Sera
  • Il Foglio di Ferrara
  • Il Fatto Quotidiano
  • Il Sole 24 Ore
  • Il Messaggero
  • Il Tempo
  • La Repubblica
  • Sky Tg24
  • Notizie Tgcom
  • La Gazzetta dello Sport
  • Previsioni Meteo
  • Facebook
  • Comincia a pubblicare su Forum Politico
  • Indice
  • Staff • Cancella cookie • Tutti gli orari sono UTC + 1 ora [ ora legale ]
Powered by phpBB © 2000, 2002, 2005, 2007 phpBB Group | proGravity v3.0.4 - Design by Ika © 2009 ShadowFlames Development Traduzione Italiana phpBB.it